Il risultato di questo rituale politico non è stato esaltante, anzi ha sottoposto il già compromesso equilibrio dell’istituzione scolastica italiana a continue scosse ondulatorie e sussultorie, in nome dell’innovazione, ovviamente imposta per decreto. Le scosse maggiori hanno colpito il sistema nervoso e l’equilibrio psichico di una classe docente molto stagionata e poco incline a rimettersi continuamente in discussione, che ha reagito spesso a tali cambiamenti in modo con un adeguamento passivo e poco convinto ai nuovi dettami ministeriali.
Dopo anni e anni di riforme della scuola italiana (ma forse sarebbe meglio chiamarle ‘de-forme’…), è però apparso evidente che non si trattava più tanto di ridisegnare i cicli scolastici e loro durata, di proporre indicazioni programmatiche flessibili al posto di rigidi programmi uguali per tutti e neppure di esaltare il mito dell’autonomia scolastica, mentre la si mortificava con tagli ai finanziamenti e con normative che puntavano all’adeguamento più che all’innovazione ed alla sperimentazione. Il ‘bersaglio’ della smania riformistica di chi ci ha governato e ci governa si è poi spostato sui docenti in quanto tali, o meglio sulla loro qualificazione professionalità e carriera, in nome di un altro mito dell’efficientismo aziendalista: la valutazione.
Per carità, niente da eccepire al concetto in sé di valutazione dell’attività lavorativa – in questo caso professionale – di un pubblico dipendente, che non è certo un lavoratore di serie A cui tutto sia dovuto e nulla si debba chiedere. Il fatto è che questa improvvisa smania valutativa non sembra essere affiorata per questioni di equità, di tutela degli utenti del servizio pubblico scuola o per rendere l’insegnamento sempre più qualificato ed efficace. La principale preoccupazione di chi ci governa – peraltro incapace di garantire a coloro che si avviano alla docenza una formazione realmente valida sul piano non solo teorico ma anche pratico – da alcuni anni è quella di trovare un modo per “selezionare” coloro che già insegnano, valutandone le prestazioni professionali e consentendo in tal modo livelli e carriere diversificate.
Dietro il moralistico martellamento sulla necessità che i riluttanti docenti si facciano finalmente valutare affiora la volontà di aumentarne i carichi di lavoro e di ridurne quantitativamente la presenza nelle scuole, avviando in parallelo pratiche didattiche parzialmente sostitutive dell’insegnamento classico, in favore di tecnologie didattiche e di strumentazioni informatiche.
Non dovrebbe sfuggire a nessuno – ma purtroppo succede abbastanza spesso – che se chi ci governa fosse animato da una genuina preoccupazione per i destinatari finali del processo educativo-didattico, ossia gli studenti, tale lodevole proposito mal si concilierebbe col tentativo di ‘spremere’ dai docenti una maggiore quantità di prestazioni, anziché una migliore qualità del servizio offerto.
Una scuola…avanguardista?
Il documento diffuso dal governo Renzi su tale materia è stato significativamente intitolato: “La buona scuola” (http://www.governo.it/backoffice/allegati/76600-9649.pdf ) ed ha come significativo sottotitolo:“Facciamo crescere il Paese”, lasciando intuire che l’Italia “crescerà” (qualunque cosa voglia significare questo ambiguo verbo…) se, e solo se, il suo sistema scolastico diventerà più “buono” di quanto è attualmente. Nell’introduzione, infatti, si affermano subito tre teoremi fondamentali, la cui validità è ovviamente data per scontata: 1) “l’istruzione è l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione” (sic!); 2) “Dare al Paese una buona scuola significa dotarlo di un meccanismo permanente d’innovazione, sviluppo e qualità della democrazia” e 3)”…dobbiamo tornare a vivere l’istruzione [...] come la leva più efficace per tornare a crescere. La scuola italiana ha tutte le potenzialità per guidare questa rivoluzione. Per essere l’avanguardia, non la retrovia del Paese”.
Mettendo da parte la sintassi ed il lessico un po’ traballanti del testo citato, questo proclama iniziale mi sembra ispirato da una retorica vagamente “futurista”. L’esaltazione acritica dell’innovazionepermanente, della crescita (considerata sinonimo di ‘sviluppo’) e perfino di concetti bellicosi ed un po’ datati come quello di avanguardia – pur se filtrata attraverso l’eloquio colorito e scoppiettante del nostropremier- lascia comunque perplessi e fa presagire che questa sedicente “rivoluzione” sta per abbattersi con effetti particolarmente dirompenti sulla nostra scuola.
Quest’ultima è severamente richiamata a smetterla di rappresentare la “retrovia” del nostro Paese, per diventarne invece: faro d’innovazione, leva della crescita e segno evidente (come si afferma poco dopo)“…di un Paese intero che ha deciso di rimettersi in cammino”.
Non credo di essere il solo a cogliere la retorica quasi profetica di tali espressioni che però, a ben guardare, sembrerebbero rinviare più al passato che al futuro. Si parla infatti di “tornare a vivere l’istruzione” in un certo modo, di “rimettersi in cammino”, di “ripartire da chi insegna”. Dietro il prospettato roseo futuro, insomma, sembrerebbe di cogliere un vago – direi quasi nostalgico – riferimento a tempi migliori, contrassegnati da parole come “orgoglio”, “coraggio” e “crescita”.
Basta con l’Italietta di chi vorrebbe continuare a “pensare in piccolo” e si basa sul “si è sempre fatto così” ! “Il mestiere più nobile e bello” – prosegue il proclama renziano – è quello di “aiutare a crescere le nuove generazioni”. Per questo serve una scuola fondata sulla “stabilità” degli organici dei docenti e sulla vera “autonomia” delle singole scuole, chiamate in termini calcistici a “schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”.
L’immagine della scuola preconizzata da questo documenti pare improntata ad una visione neo-futurista di progresso (fatto di innovazione, crescita, sviluppo, competizione, coraggio etc.) e va a delineare un modello che sappia “sbarazzarsi della burocrazia scolastica” e punti invece all’innovazione tecnologica (la “connettività alla Rete”) ed all’efficienza: “attraverso un sistema in cui la retribuzione valorizzi l’impegno di ogni insegnante e il contributo al miglioramento della propria scuola, perché non più concepibile una carriera scolastica in cui si cresce solo perché s’invecchia”.
Ecco che la montagna della retorica rivoluzione scolastica ha partorito il misero topolino della vera molla della riforma: commisurare la retribuzione dei docenti al loro effettivo “contributo”, spazzando il vecchio modello di carriera fondata sugli anni di esperienza e premiando invece il merito e l’impegno innovativo. Se qualcuno avesse dei dubbi su cosa significhi “innovazione”, il concetto viene chiarito un po’ più avanti, quando si precisa che: “…la scuola deve diventare l’avamposto del rilancio del ‘Made in Italy’ [...]raccordando più strettamente scopi e metodi della scuola con il mondo del lavoro e dell’impresa” .
Beh, che queste cose le dicesse a suo tempo l’ex premier Berlusconi, riassumendole nel noto trinomio“Inglese, Internet e Impresa”, non mi meravigliava più di tanto. Ma che uno slogan altrettanto semplicistico ed aziendalista possa diventare la bussola della riforma renziana della scuola è un dato che sconcerta molto di più.
Come riempire…il portfolio
Il paragrafo 2.3 del vangelo della “Buona Scuola” è intitolato significativamente: “Premiare l’impegno. Come cambia la carriera dei docenti”. Nel capitolo seguente troviamo il paragrafo 3.1 dal titolo:”Valutazione per migliorare la scuola”. Anche qui, pur prescindendo da giudizi stilistici sulla prosa del documento, credo che valga la pena di soffermarsi su alcune espressioni in particolare, per coglierne non solo il senso palese ma anche quello latente. La prima affermazione è che bisogna “far uscire i docenti dal ‘grigiore’ dei trattamenti indifferenziati”. Il vero problema, si chiarisce, è il dovere di “liberarci da quella standardizzazione che, negli ultimi decenni, inevitabilmente ha significato competizione al ribasso e frustrazione di riflesso”, col solo risultato di “accontentarsi delle prospettive di carriere fondate sul mero dato dell’anzianità”. Come si dovrebbe realizzare allora questa mirabile rivoluzione? E’ semplice: non ci si deve limitare a computare gli anni di lavoro didattico, ma c’è bisogno di “… introdurre elementi di differenziazione basati sul riconoscimento di impegno e meriti”. Semmai qualcuno s’illudesse che essi potranno essere valutati solo in base a certificazioni ed autocertificazioni, viene subito e minacciosamente avvisato che: “non sarà un sistema fatto di sole procedure formali e certificati. Perché ci sarà spazio per una valutazione anche qualitativa interna alla singola scuola”. Come dire: noi sì che facciamo sul serio, cari insegnanti; per cui, oltre a valutare gli anni di carriere ed i soliti crediti formativi, verremo a stanarvi fin dentro la vostra aula, per verificare quanto valete davvero!
Il sistema prospettato resta ancora costituito dall’insieme di crediti formativi che ogni docente riesce a cumulare negli anni, ma si precisa che essi saranno legati al suo impegno su tre precisi terreni: (1) “il miglioramento della didattica”; (2) “la propria qualificazione professionale” e (3) “la partecipazione al progetto di miglioramento della scuola” .
Tali crediti individuali andranno ad arricchire il ‘portfolio’ di ciascun docente e diventeranno pubblici e consultabili da parte dei dirigenti scolastici, che in tal modo potranno finalmente “…scegliere le migliori professionalità per potenziare la propria scuola”. Tutto chiaro, no? Le scuole, sempre più simili ad aziende private, potranno selezionare il personale da assumere, nel sano spirito capitalista della libera concorrenza, della premialità e delle logiche di mercato. Manco a dirlo, nell’esclusivo interesse degli studenti e della qualità del servizio offerto….
Ancora perplessi? Niente paura: il manuale della buona scuola offre altri ragguagli in merito, rispondendo in anticipo alla prevedibile domanda: “Come il docente potrà dimostrare quanto vale?” (sic). Infatti, si argomenta, ci sono crediti e crediti. Quelli ‘didattici’ si riferiscono alla qualità dell’insegnamento, mentre quelli ‘formativi’ rinviano a percorsi di formazione ed aggiornamento in servizio documentabili e valutabili. Infine, quelli definiti ‘professionali’ “sono assunti all’interno della scuola per promuovere e sostenerne l’organizzazione ed il miglioramento,sia nella sua attività ordinaria (coordinatori di classe) sia nella sua attività progettuale”. Sembrerebbe una risposta abbastanza chiara ed esaustiva, se non fosse per il fatto che si tratta di affermazioni comunque vaghe e, soprattutto, non rapportabili a criteri ben precisi che consentano ai docenti, per citare l’infelice espressione del titolo, di dimostrare quanto davvero valgono. Si dice solo che tale non facile compito sarà affidato a fantomatici“Nuclei di Valutazione”, interni ad ogni scuola ma comprendenti anche un membro esterno.
“Valutandi te salutant !”
“Scansiamo il campo dagli equivoci:il sistema di valutazione della scuola che intendiamo costruire nonè fatto di competizione e classifiche. E non mira,semplicisticamente, a “premiare la scuola migliore”, quanto piuttosto a “sostenere la scuola che si impegna di più per migliorare”. C’è una bella differenza: non abbiamo bisogno di gare tra istituti, ma di incoraggiare tutti gli istituti, in tutto il territorio, al miglioramento continuo di quello che offrono agli studenti”.
Queste nobili parole fanno da proemio al paragrafo 3.1 del documento ministeriale e vorrebbero rassicurarci, ma suonano come la classica “excusatio non petita”. Non c’è nessuna “gara” per qualificarsi come “la scuola migliore” – si afferma solennemente – ma solo la volontà di stimolare ogni scuola a dare il meglio di sé. L’obiettivo dichiarato poco più avanti è quello di “rendere giustizia” al percorso che ogni istituto intraprende per migliorarsi, non certo quello di stilare classifiche tra scuole. Ottimo! Peccato che nei Paesi dove questo sistema di valutazione è operativo da molti anni (come ad esempio negli U.S.A.) il risultato evidente è stato, sul piano didattico, la standardizzazione forzata dell’insegnamento e, su quello gestionale, la messa in mora o addirittura la chiusura d’intere scuole i cui punteggi erano risultati inferiori a quelli attesi…
“Il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV), previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 80 del 2013, sarà reso operativo dal prossimo anno scolastico per tutte le scuole pubbliche, statali e paritarie.” – si avverte nel documento, precisando inoltre che “non sarà un ulteriore adempimento amministrativo” bensì qualcosa di serio e qualificato. Ma su quali basi?
“Dentro allo strumento di autovalutazione si troveranno indicatori su contesto e risorse, esiti e processi della scuola: ambienti di apprendimento, apertura verso il territorio, pratiche educative e didattiche, livello e qualità di quello che gli studenti avranno imparato,elementi socio-economici di contesto, ma anche informazioni utili per capire, ad esempio,se gli apprendimenti degli studenti incidono sulla loro scelta di proseguire gli studi o sulle loro chance di trovare un lavoro. Si verificherà se i risultati di apprendimento fra le classi e dentro le classi siano equi o meno all’interno della stessa scuola o se mostrano invece delle distorsioni da correggere affinché nessuna classe – e nessun ragazzo in nessuna classe – sia abbandonato a se stesso”.
Credo che nessuno di noi avrebbe saputo dire meglio… Il fatto è che a queste vibranti dichiarazioni d’intenti non sembrano però corrispondere precisi modelli di riferimento, tassonomie educative né chiari indicatori che ci spieghino su quali basi e come questi dati dovrebbero essere raccolti, ponderati e valutati. Potete scorrere le restanti 60 pagine del documento ministeriale, ma non troverete nulla di più in proposito. Viceversa, un sistema scolastico come quello statunitense, per tornare al caso già citato di un’esperienza attuata da parecchio tempo, dei parametri di valutazione dell’insegnamento se li è dati. Anzi, ha stabilito un set di obiettivi in quasi ogni Stato della federazione, offrendo almeno un elemento di riferimento ai docenti interessati. Lo Stato di New York (cfr. http://www.teachscape.com/frameworkforteaching/home ), ad esempio, si è dato da anni uno strumento valutativo ben preciso, che può anche piacere o meno ma che comunque specifica su quali livelli e parametri sarà valutata la prestazione professionale di un docente, precisando perfino i ‘descrittori’ di ogni giudizio formulato. Si tratta, nel caso specifico, di quattro ambiti (“domains”): il primo si riferisce alla pianificazione e preparazione delle attività didattiche (ad es.: conoscenza degli studenti e conoscenza delle risorse disponibili); il secondo a quello che viene chiamato “ambiente della classe”(gestione dei comportamenti, delle procedure e degli spazi fisici); il terzo attiene specificamente al processo d’istruzione ed alle tecniche educativo didattiche impiegate (nel campo della comunicazione, del coinvolgimenti degli allievi, della discussione etc.); il quarto ed ultimo, infine, si sofferma sulle responsabilità del docente (fra cui la registrazione del proprio lavoro, il mantenimento dei rapporti con le famiglie o l’aggiornamento e lo sviluppo della propria professionalità).
Disporre di un documento che specifica i 4 ambiti (con 22 componenti e relativi 76 elementi) sui quali si deve essere valutati non rende questa valutazione necessariamente più scientifica né tanto meno oggettiva, ma quanto meno offre parametri di riferimento meno generici e vaghi.
Quello che è certo è che nella scuola italiana sta per mettersi in moto una macchina che rischia di andare avanti senza indirizzi precisi, ma iniziando comunque a suscitare in ogni scuola un clima competitivo ed un impeto aziendalista e carrierista che ritengo devastanti e che , ovviamente, smentiscono le tranquillizzanti premesse di cui sopra.
Basti pensare alla brillante trovata ministeriale del c.d. “docente mentor” che, si spiega: “ segue per la scuola la valutazione, coordina le attività di formazione degli altri docenti, compresa la formazione tra pari, sovrintende alla formazione dei colleghi, accompagna il percorso dei tirocinanti [...] e in generale aiuta il preside e la scuola nei compiti più delicati legati alla valorizzazione delle risorse umane nell’ambito della didattica” (pag, 57). Si tratta di un sottile espediente per rilanciare la corsa all’autoaffermazione di alcuni docenti più intraprendenti, col miraggio di ‘indennità di posizione’, crediti professionali aggiuntivi e, perché no, scatti stipendiali per merito. Naturalmente tutti gli insegnanti ricordano che fine ha fatto la proposta di nominare in ogni scuola dei docenti “tutor” di livello superiore, affidandogli compiti di coordinamento didattico e di gestione del c.d. “portfolio” didattico dei singoli studenti….
La verità è che il solo portfolio di cui il MIUR non sembra affatto preoccuparsi è quello dei lavoratori della scuola, docenti o meno che siano, dai quali si pretende un impegno sempre più intenso, complesso e quantitativamente oneroso, in cambio di “un pugno di dollari” e di qualche medaglietta professionale da esibire, e davanti ai quali si agita anche lo spauracchio della “mobilità”, sia geografica sia professionale. Ma siamo proprio sicuri che questa che ci stannio trionfalisticamente prospettando sia davvero “la buona scuola” di cui l’Italia ha bisogno?
Il punto finale della sintesi del documento così recita: “12. LA SCUOLA PER TUTTI, TUTTI PER LA SCUOLA >Stabilizzare il Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (MOF), renderne trasparente l’utilizzo e legarlo agli obiettivi di miglioramento delle scuole. Attrarre risorse private (singoli cittadini, fondazioni, imprese), attraverso incentivi fiscali e semplificazioni burocratiche”.
La “buona scuola”, in definitiva, sarebbe allora quella che punta sull’innovazione tecnologica e digitale, sul “pensare in grande”, sull’obiettivo della “crescita” produttiva e sulla prospettiva di finanziamenti provenienti dalle imprese? A questo punto una domanda sorge spontanea: ma questa scuola è “buona”per cosa e soprattutto per chi? Poniamoci questo quesito, diamoci una risposta e poi – come ci chiede il MIUR – esprimiamo liberamente la nostra opinione a chi ci chiede retoricamente di pronunciarci. D’altra parte, in fondo sarebbe ben strano se l’unica a non dover essere valutata fosse proprio la riforma della scuola !
© 2014 Ermete Ferraro (pubblicato il 3 ottobre 2014 su:http://ermeteferraro.wordpress.com )