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Napulengua: insegnare il Napoletano a scuola

8/1/2016

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Dopo la positiva esperienza dello scorso anno, anche per il 2015-16 ho deciso di riproporre nella scuola dove insegno Lettere un’attività extracurricolare consistente in un Corso di lingua e cultura napoletana. Una volta approvato dal Collegio dei docenti, il progetto “Napulitanamente” si avvia quindi a ripartire, con la previsione di 18 ore di laboratorio teorico-pratico, con certificazione finale delle competenze raggiunte da ciascuno dei partecipanti a questa innovativa esperienza. Il fatto che ne abbiano diffusamente parlato siamedia radio-televisivi (fra cui addirittura il secondo canale della televisione francese France2 e la rete cattolica nazionale TV 2000), sia quotidiani e periodici a stampa ed online (ad es. Il Mattino, La Repubblica, Roma, Italia Oggi, Orizzonte Scuola etc.), ovviamente mi fa molto piacere. Mi avrebbe però fatto ancora più piacere se il mio esempio fosse stato seguito da altri docenti (di Lettere come me ma anche di altre discipline), così da allargare la cerchia degli studenti coinvolti in tale azione di salvaguardia e valorizzazione del Napoletano. Purtroppo a battersi per una sua regolamentazione grammaticale ed ortografica e per il riconoscimento della sua piena dignità di lingua si direbbe che siano rimasti solo gli appassionati della cultura napoletana, a partire da coloro che non hanno mai smesso di scrivere in Napoletano le loro poesie, i loro testi teatrali o quelli legati alle composizioni musicali.
Il mio progetto, però, non vuol essere un’eccezione lodevole che conferma la regola del colpevole disinteresse delle istituzioni per la tutela e la valorizzazione del patrimonio linguistico e letterario del Napoletano e dell’identità culturale di Napoli. Al contrario,  fin dall’inizio negli anni ’90, io mi sono proposto di stimolare altri insegnanti appassionati di questa lingua affinché utilizzassero tutti gli spazi possibili – fra cui le attività aggiuntive d’insegnamento – per portare avanti sempre nuove esperienze didattiche in tal senso. Sta di fatto che l’interesse crescente di tante persone per l’apprendimento di un modo corretto per esprimersi in Napoletano non riesce ancora a trovare una risposta adeguata. Dobbiamo naturalmente essere grati a chi – come il poeta Nazario Bruno o lo scrittore Gianni Polverino – stanno facendo tanto per divulgare i principi di un’ortografia napoletana accettabile e di un lessico partenopeo adeguato ai nostri tempi ma rispettoso della tradizione. Altrettanto riconoscenti dobbiamo essere nei confronti di tutti coloro – fra cui linguisti e cultori della materia – che non si sono mai rassegnati a lasciar andare in malora un patrimonio culturale plurisecolare e che giustamente, invece, difendono l’identità collettiva che da esso deriva. Ma questo, dobbiamo riconoscerlo, non basta ad invertire la tendenza a trasformare progressivamente il Napoletano in un ‘volgare’ di serie B ed a cancellare – in nome dell’omologazione forzata al pensiero unico ed alla ‘Neolingua’ corrente – quelle preziose diversità linguistiche che rendono unica l’Italia.
Certo, nel 2015 si è registrata una reviviscenza di questa proposta, culturale prima che politica. Ci sono state in città ,infatti, varie iniziative tese a valorizzare il Napoletano, dagli incontri periodici presso il circolo “50 e più” a Via Toledo a convegni su alcuni suoi aspetti particolari, fra cui ricordo quelli sugli ‘arabismi’, sulla ‘geografia delle lingue’ presso l’Università l’Orientale e su vari aspetti connessi alla ‘Festa d’’a Lengua Nosta’, organizzata dall’associazione ‘G.B. Basile’. Ma a fronte di questi positivi contributi non si può fare a meno di registrare anche un generale scadimento nell’uso del parlato napoletano fra i giovani e la loro diffusa tendenza a ricorrere ad un’improponibile grafia sia nei testi delle canzoni, sia nei messaggi diffusi via cellulare, sui social media e, ahimè!, spesso anche sui muri della nostra città.  Un’altra novità apparentemente positiva è il fiorire di slogan pubblicitari in Napoletano, utilizzati da piccole e grandi aziende, fra cui perfino alcune multinazionali. Pur a prescindere dall’uso palesemente opportunistico di una lingua così popolare per veicolare messaggi consumistici, il problema è che gran parte di essi risultano comunque sgrammaticati, disortografici e talora lessicalmente poco corretti.
Che fare allora? C’è chi continua a sperare in improbabili provvedimenti normativi regionali, incurante del fatto che finora tutte le proposte di legge – provenienti sia dal consiglio provinciale di Napoli sia da quello regionale della Campania – si sono da tempo arenate sulle secche del disinteresse di chi ci amministra per questa battaglia di civiltà. C’è poi chi si ostina a perseguire una dubbia via ‘identitaria’ per ridare dignità alla lingua napoletana, finendo col far coincidere la legittima rivendicazione di rispetto e tutela di questo regional language con una più complessiva battaglia ‘meridionalista’ o, peggio ancora, con un antistorico revanscismo venato di nostalgie neoborboniche. Una terza ‘corrente’, infine, è quella di chi pensa che sia sufficiente chiudersi nella turris eburnea degli studi accademici, approfondendo scientificamente  la storia ed il patrimonio linguistico del Napoletano, al punto tale da dare l’impressione di volerne quasi dissezionare il cadavere o di volerlo mummificare sul solo piano ‘dotto’.
La verità è che, per fortuna, la lingua napoletana è ancora viva e vegeta e non si lascia rinchiudere nelle aule universitarie né volgarizzare come ‘lengua vascia’ da utilizzare solo per battute spinte o per la seriale produzione nazional-popolare di canzoni neomelodiche. E’ vero anche, però, che il napoletano italianizzato –  così come l’italiano dialettale – non possono garantire a lungo la sopravvivenza e la vitalità lessicale di questa lingua. Lasciamo quindi da parte l’ipercorrettismo fuori luogo di alcuni rigidi ‘puristi’ del Napoletano letterario, ma evitiamo soprattutto la trascuratezza e la sciatteria che traspare da un uso scorretto ed anomalo di questa lingua. Nessuno pretende che si continui a parlare o a scrivere come Basile o come Di Giacomo. Una lingua viva è quella che si sa adattare a nuovi contesti e che suona attuale e corrente ai parlanti di oggi. Questo però non autorizza a sottoporla ad artificiali mutazioni genetiche o a meticciamenti non necessari. Qualcuno ha detto argutamente che quelli che parlano il Napoletano non lo sanno scrivere e che quelli che lo scrivono si vergognano di parlarlo. Ebbene, credo proprio che sia giunto il momento di smetterla con quest’ ambiguità socio-linguistica e di riprenderci integralmente la nostra ‘madrelingua’.

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LA BUONA SCUOLA DI MAGIA

3/6/2015

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E’ stato pubblicato ieri un importante decreto-legge del Ministero della Magia. Dopo le indiscrezioni del giorni scorsi, il testo del provvedimento è stato comunicato ufficialmente dal Ministro della Educazione alla Magia, Stephan O’Johnny, che ha illustrato le principali innovazioni introdotte, in una conferenza stampa tenuta nell’Aula Dieci del Ministero.
Il primo punto del decreto, quello più qualificante, riguarda la centralità assoluta del Preside delle Scuole di Magia (P.S.), il quale diventa così:
 “responsabile (…) delle scelte didattiche, formative, della valorizzazione delle risorse umane e del merito dei docenti” (art. 7).
D’ora in poi, quindi, toccherà a lui soltanto il potere-dovere di elaborare il Piano Triennale dell’Offerta Formativa Magica, che dovrà prevedere il fabbisogno dell’organico dei docenti di arti magiche. Secondo l’art. 2 del decreto, pertanto, il Collegio dei Docenti ed il Consiglio della Scuola saranno solo “sentiti” dal P.S.. Questi potrà dunque scegliere in totale autonomia i suoi insegnanti, in un’ottica di competizione fra scuole, anche al di fuori delle vecchie graduatorie del Ministero e secondo criteri di discrezionalità. In ogni caso, ogni incarico avrà una durata di soli tre anni, ragion per cui il Preside potrà anche non rinnovarlo, se non sarà soddisfatto dei risultati ottenuti.  E’ peraltro previsto che il P.S. possa scegliere i propri docenti anche al di fuori delle vecchie specializzazioni (ad es. nominando sulla cattedra di ‘Erbologia’ un insegnante di ‘Trasfigurazione’), sempre che lo ritenga qualificato a ciò. Sono altresì previsti dal decreto dei “premi” per i docenti meritevoli, ulteriore elemento affidato alla valutazione autonoma dei Presidi, la cui autorità ne risulterà quindi molto rafforzata.
Per i corsi superiori di Magia – quelli che portano al conseguimento del M.A.G.O. (Magie Avanzate di Grado Ottimale) – è previsto inoltre che gli studenti possano personalizzare il loro curriculum, scegliendo degli insegnamenti opzionali (ad es. Aritmanzia oppure Cura delle Creature magiche). E’ altresì previsto che essi possano sostituire le ore di lezione curricolari anche con una alternanza scuola-lavoro, attraverso contratti di apprendistato come “alchimisti aggiunti in prova”, o come “assistenti alla ricerca delle tradizioni babbane”, ovviamente senza alcuna retribuzione.
E’ stata inoltre istituita la formazione obbligatoria dei docenti , che dovranno seguire almeno 50 ore di aggiornamento su materie come: “digitalizzazione delle antiche rune”, “elementi di statistica degli incantesimi” o “Divinazione di ciò che passa nella testa del P.S.”.
Resta confermato che la valutazione del merito dei docenti di magia resta affidata al P.S., con riferimento:“...ai risultati ottenuti in termini di qualità dell’insegnamento, di rendimento scolastico degli studenti, di progettualità nella metodologia didattica, di innovatività e contributo al miglioramento complessivo della scuola” (art. 11).
Ovviamente nella valutazione della professionalità degli insegnanti sarà di fondamentale importanza il risultato ottenuto dai loro allievi nelle prove INWIZ (International Standard of Wizardry), la cui obbligatorietà e centralità è ovviamente confermata.
Infine, il decreto-legge prevede anche delle cospicue agevolazioni fiscali , per cui tutti i contribuenti (babbani compresi) potranno destinare il 5 per mille della loro imposta alle scuole di magia, anche quelle private, purché riconosciute dal Ministero della Magia.
Un altro punto qualificante del provvedimento – ha sottolineato il Ministro O’Johnny – è la regolamentazione dell’accesso alla professione di insegnanti di arti magiche. D’ora in poi, infatti, si potrà accedere alla professione esclusivamente mediante concorso, entrando in ruolo ma con validità di soli tre anni.
Il reclutamento e l’abilitazione dei docenti, quindi, sarà affidata alla vincita di un concorso specifico, che sarà indetto dall’ Ufficio contro l’Uso Improprio delle Arti magiche. Avverso le decisioni assunte, sarà possibile comunque fare ricorso al Servizio Amministrativo Wizengamot, presieduto dal Preside Emerito Dexter Fortebraccio, sebbene da 100 anni egli risulti pietrificato da un incantesimo di “voi sapete chi”.
L’art. 11 del decreto approvato dal Ministero della Magia, inoltre, prevede una delega a deliberare entro 18 mesi decreti legislativi su un lunghissimo elenco di materie, che spaziano dalla riforma degli organi collegiali delle Scuole di Magia (che verranno subordinati al P.S.), agli Esami di Stato per il conseguimento dei G.U.F.O.  e dei M.A.G.O., al sistema integrato di educazione e istruzione (con progressiva esclusione degli studenti babbani che non abbiano ottenuto il voto di Eccezionale alle prove INWIZ).
Si prevedono anche nuove norme relativamente al riordino dei ruoli dei docenti di arti magiche, alla valorizzazione del merito (degli studenti e delle relative Case) ed anche alla valutazione cui saranno assoggettati gli stessi Presidi, come peraltro avvenuto con la precedente rimozione per decreto del Preside di Hogwarts, Albus Silente.
Al termine della conferenza stampa, alcuni giornalisti hanno posto alcune domande al Ministro dell’Educazione su alcuni punti controversi, come l’autorità assoluta dei presidi ed i criteri di reclutamento e valutazione dei docenti.
Incalzato da questi interrogativi, il Ministro O’ Johnny è però apparso vivamente contrariato e si è limitato a dichiarare che non c’è nulla da chiarire nel decreto, dal momento che – come recita il motto che circonda lo stemma del Ministero della Magia – “ignorantia juris neminem excusat” (cioè: “la legge non ammette ignoranza”).
Questa sbrigativa risposta ha irritato i giornalisti – fra cui il sottoscritto – ed alcuni rappresentanti del Sindacato C.G.D.A.M. (Confederazione Generale dei Docenti di Arti Magiche) , ragion per cui il clima nella Sala Dieci si è progressivamente riscaldato.
Il Ministro Stephan ‘O Johnny, però, ha indossato a sorpresa il mantello dell’invisibilità ed è sparito agli occhi dei presenti. E’ invece stato diramato un comunicato stampa dall’Ufficio del Premier (Colui che Non deve Essere Nominato), nel quale egli si dichiara molto soddisfatto della riforma del sistema educativo, esprimendo infine la sua convinzione che essa: “…avrà senz’altro il successo che merita, alla faccia di tutti i gufi di Hogwarts…”.
                                                                                                           Ermes Non Silente
                                                                                      (inviato de La gazzetta del Profeta)

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© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )
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ma quali competenze ci chiede l'europa ?

13/3/2015

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  1. Una sperimentazione tardiva, però immediata
Chi ha partecipato ad uno dei tanti Collegi dei Docenti tenuti nelle scuole italiane in questo periodo si sarà sicuramente trovato, tra i punti all’ordine del giorno, l’adozione ‘sperimentale’ di un nuovo modello di certificazione delle competenze, al termine del primo ciclo d’istruzione. Inutile chiedersi il motivo di tale sincronismo. Il governo Renzi, impegnato a diffondere il verbo della “buona scuola” ed a“cambiar verso” anche in materia d’istruzione, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione della riforma scolastica per entrare nel merito.

Ecco che il 13 febbraio 2015 il MIUR ha emanato la C.M n.3 [1] nella quale si propone la “Adozione sperimentale dei nuovi modelli nazionali di certificazione delle competenze nelle scuole del primo ciclo di istruzione”, così motivando l’opportunità di tale scelta:

<< – ancoraggio delle certificazioni al profilo delle competenze definito nelle Indicazioni Nazionali vigenti (DM n. 254/2012); – riferimento esplicito alle competenze chiave individuate dall’Unione Europea, così come recepite nell’ordinamento italiano; – presentazione di indicatori di competenza in ottica trasversale, con due livelli di sviluppo (classe quinta primaria, classe terza secondaria I grado); – connessione con tutte le discipline del curricolo, evidenziando però l’apporto specifico di più discipline alla costruzione di ogni competenza; – definizione di 4 livelli, di cui quello “iniziale” predisposto per favorire una adeguata conoscenza e valorizzazione di ogni allievo, anche nei suoi progressi iniziali e guidati (principio di individualizzazione); – mancanza di un livello negativo, attesa la funzione pro-attiva di una certificazione in progress delle competenze che, nell’arco dell’obbligo, sono in fase di acquisizione; – presenza di uno o due spazi aperti per la descrizione di competenze ad hoc per ogni allievo (principio di personalizzazione); – sottoscrizione e validazione del documento da parte dei docenti e del dirigente scolastico, con procedimento separato rispetto alla conclusione dell’esame di Stato; – presenza di un consiglio orientativo, affidato alla responsabile attenzione dei genitori.>>

A questo punto viene da chiedersi: come mai a quasi tre anni dalle ‘nuove’ Indicazioni Nazionali per il curricolo [2] ed a più di otto dalle Raccomandazioni in merito del Parlamento Europeo [3] questa nuova modalità di certificazione è diventata all’improvviso così urgente?  Ma allora le certificazioni prodotte al termine della scuola media in questi anni erano poco ‘ancorate’ al profilo indicato dal Ministero a livello nazionale? Per quale motivo finora hanno fatto certificare ai docenti competenze che non avevano i necessari requisiti della trasversalità e della interdisciplinarità ? E inoltre, come mai questo nuovo modello deve essere sottoscritto dai docenti e dal dirigente scolastico “con procedimento separato” rispetto agli adempimenti degli esami di stato? Per non parlare della confermata farsa che richiede agli insegnanti di esprimere nel certificato un “consiglio orientativo” quando già gli alunni si sono iscritti da qualche mese alla scuola superiore…

Purtroppo il MIUR non offre risposte a tali domande, però lascia intendere che aderire a sua proposta è una scelta di qualità. Nel consueto burocratese, inoltre, ci comunica che: <<…si attende che la scelta del format proposto possa retroagire positivamente con le pratiche didattiche in atto nella scuola, ispirandole maggiormente a quanto previsto dalle Indicazioni/2012 >>, fornendo una modalità che dovrebbe evitare che tale operazione si riduca ad un“adempimento amministrativo”, così da “arricchire le pratiche valutative correnti”.

Sorvoliamo su espressioni come format, che fanno pensare più ai reality televisivi che all’ambito dell’istruzione, e lasciamo correre l’anglicismo mascherato dietro il verbo retroagire, che rinvia ad un linguaggio sospeso tra psicologismo comportamentale e lessico da marketing.

Il nocciolo è che la circolare ministeriale chiede alle scuole italiane è di adottare ‘sperimentalmente’ il proposto modello di certificazione già dalla prossima sessione degli esami. Al tempo stesso ci notifica che dal prossimo anno scolastico, in ogni caso,  esso sarà impiegato in tutte le istituzioni scolastiche, dopo averlo “validato ed eventualmente integrato” grazie a tale ‘sperimentazione’, di cui si dà per scontato l’esito positivo. Come dire: la minestra è questa, se proprio volete, potete aggiungerci un po’ di aromi… Di fronte alla ventilata ineluttabilità di tale scelta (che mi ricorda un po’ la celeberrima frase tratta da ‘Il padrino’: “Ci faccio un’offerta che non può rifiutare…” [4] ), suppongo che la stragrande maggioranza dei Collegi dei Docenti abbia spontaneamente risposto in modo positivo all’appello. Non ci resta, a questo punto, che sforzarci di capirci qualcosa di più.

  1. Quali competenze in una società competitiva?
Parlavo in classe con i miei alunni/e di terza degli obiettivi formativi che gli si chiede di raggiungere alla fine della scuola media e uno di loro, intuitivamente, mi ha chiesto se ci fosse un rapporto tra le parolecompetenza e competizione. In effetti, etimologicamente parlando, l’origine è la stessa, visto che entrambi derivano dal latino “cum-petere”. Nel primo caso però di sottolinea l’affinità e l’unità nel procedere (dirigersi insieme – cum -verso un obiettivo, cioè convenire) mentre nel secondo si sottolinea il concetto di ‘gareggiare con gli altri’). Lasciando stare le etimologie, però, conviene partire dalla definizione stessa di“Competenze”, riportata in un utile glossario allegato alla citata circolare:

“Le competenze sono una combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto” (Fonte: Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006); “Comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro, di studio o nello sviluppo professionale e personale, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale” (Fonte: DLgs 13/13, art. 2, c. 1).

Così illuminati, i docenti dovrebbero però leggersi attentamente anche le tredici pagine delle “Linee Guida per la certificazione delle competenze nel primo ciclo d’istruzione” [5] – oltre alle cinque della C.M. 3/2015 – per giungere adeguatamente consapevoli e preparati all’adempimento collegiale che li attende a breve, nel caso in cui facciano parte di una commissione per gli esami di licenza media.

Dopo ben “quindici anni di gestazione’ – di cui parla un articolo sul Corriere della Sera [6] – pare dunque che tale procedimento sia diventato indifferibile ed indispensabile. Ancora una volta, a quanto pare, “ce lo chiede l’Europa” e noi come sempre, sia pur con ritardo, ci adeguiamo.

Ma, di preciso, che cosa richiede ai docenti il nostro Ministero, in nome e per conto dell’Europa?

<< Dall’ampia citazione riportata si desume chiaramente che:

  • la maturazione delle competenze costituisce la finalità essenziale di tutto il curricolo;

  • le competenze da certificare sono quelle contenute nel Profilo dello studente;

  • le competenze devono essere promosse, rilevate e valutate in base ai traguardi di sviluppo disciplinari e trasversali riportati nelle Indicazioni;

  • le competenze sono un costrutto complesso che si compone di conoscenze, abilità, atteggiamenti, emozioni, potenzialità e attitudini personali;

  • le competenze devono essere oggetto di osservazione, documentazione e valutazione;

  • solo al termine di tale processo si può giungere alla certificazione delle competenze, che nel corso del primo ciclo va fatta due volte, al termine della scuola primaria e al termine della scuola secondaria di primo grado.>> [7]

Come dire: i prof non credano di cavarsela limitandosi a cambiare modulo di certificazione e livelli relativi. Adeguarsi al nuovo modello, infatti, comporta un percorso più lungo e complesso, che va dalla programmazione “per competenze” alla loro certificazione al termine del ciclo didattico.

Bene, bravi! Peccato che, in questi otto anni dalla pubblicazione delle cit. “Raccomandazioni del Parlamento e del Consiglio della U.E.”,  non mi sembra che le ‘teste d’uovo’ del MIUR si siano particolarmente impegnate nel modulare quella proposta, adattandola al nostro sistema educativo.  Si sono infatti limitati a ricopiarla sic et simpliciter nella circolare ministeriale che istituisce il ‘nuovo’ modello di certificazioni, dalla quale, comunque, si ricavano alcuni principi basilari:

  1. Ai fini della prosecuzione degli studi e del successivo inserimento nel mondo del lavoro, agli studenti si richiede il conseguimento di alcune “competenze chiave”. Sembra pertanto di poterne dedurre che quelle non comprese nello schema – secondo “l’Europa” ma anche il nostro governo – presentino invece una scarsa rilevanza educativa.
  2. Le competenze così elencate devono essere comunque declinate in base ad un determinato profiloe rilevando in esso quattro possibili livelli (iniziale – base – intermedio – avanzato), uniformando in tal modo le certificazioni scolastiche a livello nazionale e comunitario. Sembra di capire che, per le istituzioni europee, gli obiettivi formativi siano gli stessi ovunque, a prescindere dalle differenze nei modelli di scolarizzazione, educativi e culturali, tuttora riscontrabili tra stato e stato.
  3. Le competenze chiave così sancite hanno una caratterizzazione prevalentemente interdisciplinare, cosa sulla quale è difficile non essere d’accordo, ma che si rivela meno ovvia se andiamo a cogliere le priorità che, viceversa, emergono dal documento. Direi, infatti, che si conferisce comunque una prevalenza alle competenze comunicative, matematiche e tecnologico-scientifiche, insistendo in quest’ultimo caso soprattutto su quelle digitali. Certo, si prevede anche la rilevazione delle “espressioni culturali” e delle “competenze sociali e civiche” ed al punto 9 ci si spinge a parlare perfino di “spirito di iniziativa e imprenditorialità”. In questi ultimi casi, però, gli indicatori del relativo ‘profilo’ appaiono piuttosto vaghi.
  4. Il superamento della logica del conseguimento di conoscenze, abilità e competenze esclusivamente disciplinari costituisce senza dubbio un passo avanti verso un modello formativo più globale e meno frammentato in vari e distinti E’ però legittimo chiedersi se in realtà non si stia perseguendo, più di un’effettiva interdisciplinarità, un ben preciso modello di studente, il cui ‘profilo’, peraltro, era stato tracciato già nelle Indicazioni Nazionali del 2012, che attingevano a piene mani dalle “raccomandazioni” europee di sei anni prima.
Come già facevo in un articolo del 2012 [8], mi viene allora spontaneo chiedermi: ma a quale visione e modello pedagogico rinvia questo ‘profilo’ dello studente?

  1. Skill l’ha visto?
Se certificare le competenze in uscita dal primo ciclo scolastico significa valutare quanto il singolo studente si sia accostato a quel modello ideale, credo valga la pena di soffermarsi un po’ su quest’ultimo. Ebbene, dal citato profilo risulta che il/la ragazzo/a ideale che esce dalla scuola media dovrebbe essere:

  1. autonomo e responsabile, nonché capace di esprimere “la propria personalità in tutte le sue dimensioni”;
  2. consapevole dei propri limiti e potenzialità, agendo in un’ottica di dialogo e rispetto con le altre componenti della società;
  3. rispettoso delle regole comuni e collaborativo;
  4. padrone delle varie funzioni della propria lingua;
  5. capace di comunicare in altre due lingue, sia pure ‘a livello elementare’, ma comunque abile nell’utilizzo dell’inglese in ambito tecnologico e comunicativo;
  6. dotato di pensiero razionale e di conoscenze, sia matematiche sia scientifico-tecnologiche, necessarie per “risolvere problemi e situazioni”;
  7. capace di orientamento spazio-temporale e di sensibilità artistica;
  8. competente in ambito digitale, “per interagire con soggetti diversi nel mondo”;
  9. adattabile e capace di ‘imparare ad imparare’;
  10. rispettoso, della propria salute e delle regole di convivenza civile, nonché partecipativo;
  11. originale ed intraprendente;
  12. attivamente impegnato e disposto ad affrontare gli imprevisti.
A dire il vero, mi sembra che ad uno studente che risulti dotato di tutte queste qualità andrebbe conferito un premio al valore più che un semplice diploma di scuola media… In effetti, questa elencazione di requisiti mi appare retorica e sovradimensionata, soprattutto se si tiene conto che sempre più spesso a fare gli esami di terza media sono ragazzini/e di 13 anni e che la società in cui vivono gli inculca valori e modelli ben diversi, se non opposti.

Il clima individualistico e competitivo che essi respirano fin da piccoli – come sa bene chi vive in ambiente scolastico – non produce affatto atteggiamenti e comportamenti collaborativi né particolarmente rispettosi.  La tendenza all’omologazione culturale e sociali, inoltre, non mi sembra il terreno migliore per farvi crescerel’autonomia, il senso di responsabilità , l’originalità e l’intraprendenza. Semmai, vista la precarietà occupazionale ed economica dei tempi attuali, si rivelano indubbiamente utili requisiti pratici come lacompetenza nelle lingue straniere e nell’informatica e l’adattabilità agli imprevisti…

Insomma, andando un po’ più a fondo, mi sembra d’intravedere in questo studente ideale più che altro i connotati tipici di quella cultura anglo-americana che, grazie ad una buona dose di retorica ed alla pervasività dei mezzi di comunicazione di massa, ha già da tempo modellato retroterra socio-culturali molto diversi, come quello italiano.

Navigando in Internet, ad esempio, mi sono imbattuto un’interessante ricerca – svolta in Scozia nel 2003 [9]– nella quale si confrontavano le cosiddette “competenze-chiave” a livello internazionale, evidenziando un modello di riferimento comune a vari contesti. E’ però nel mondo anglosassone – ed in particolare negli USA – che questa impostazione pragmatico-utilitarista è da sempre radicata, come si riscontra esaminando, ad esempio, i “foundation skills” espressi dalla SCANS, acronimo per Secretary’s Commission on Achieving Necessary Skills, un organismo creato nel 1990 dal Ministero del Lavoro degli USA per promuovere il successo dei giovani nel mondo del lavoro.[10]

Da questa fonte emerge chiaramente che le competenze richieste agli studenti sono quelle necessarie ad un loro proficuo inserimento occupazionale più che a radicati valori etici e culturali.

Alle “abilità di base”, sia linguistiche (ascoltare, parlare, leggere e scrivere) sia matematiche, si aggiungono infatti i “thinking skills” (capacità logiche, creative, di problem solving) ed i  “requisiti personali”(responsabilità personale, autostima, autocontrollo, socievolezza, integrità).

Per carità, tutte cose ottime, ma che non credo possano esaurire le finalità di un processo educativo primario, orientate come sono all’efficienza produttiva ed all’affermazione individuale, tipiche del mito dell’American Dream.

Certo, alcuni principi – come quello dell’apprendimento collaborativo, dell’adattabilità creativa e della promozione dell’autostima – mi sembrano ampiamente condivisibili. Altri, come quello che misura la bontà di una proposta solo in base alla sua efficacia o che classifica la validità delle persone in base al loro gradoleadership a mio avviso lo sono assai meno.

E’ innegabile, però, che la nostra scuola stia diventando sempre più forzosamente omologata a parametri formativi europei che, a loro volta, rinviano all’American Way of Life, ed all’etica calvinista che l’ispirava, piuttosto che a quei principi etici e pedagogici che hanno improntato per secoli la nostra cultura cattolica ed umanistica. La parola latina “schola” , ad esempio, rimanda a quella greca“scholé”, il cui senso era “luogo di riposo”, ma anche tempo liberato dagli impegni lavorativi.[11]

Per una cultura classica come la nostra, attribuire alla scuola esclusive finalità di formazione al mondo del lavoro equivale pertanto a rinnegare l’educazione ‘liberalis’ , per conformarsi all’utilitarismo di stampo anglosassone ed alla logica del mercato, in cui l’otium è un peccato ed ilnegotium è l’unico fine da perseguire.

  1. Tre riflessioni finali 
Quanto emerge dalle considerazioni fatte finora lascia trasparire, ancora una volta, la volontà di imporre ovunque e comunque un ‘pensiero unico’, di chiaro stampo economicista, cancellando visioni ed impostazioni culturali differenti in nome della globalizzazione e della conseguente necessità di omologare procedure e percorsi formativi. Di fronte a questa forzatura, di stampo vagamente coloniale, si può reagire in modo istericamente nazionalista – rifiutando a priori ogni modello straniero – oppure decidere autonomamente che cosa far proprio e cosa rifiutare del patrimonio ideale e pratico altrui.Personalmente, ritengo che la seconda sia la strada da preferire, per dimostrare noi per primi di saper essere al tempo stesso intellettualmente “autonomi”, ma anche “adattabili” ai nuovi contesti.

La precipitazione con la quale, dopo un decennio di esitazione, si pretende ora d’imporre questo modello standardizzato di competenze è sintomo di una più complessiva volontà politica di cambiare radicalmente l’Italia, a partire dalla progressiva cancellazione dei principi e delle modalità organizzative che caratterizzano la nostra Costituzione. Sulla bontà o meno di questa operazione, ovviamente, ci possono essere valutazioni differenti. Credo però che ai docenti – componente essenziale di un comparto finalizzato alla formazione delle nuove generazioni – spetti di esercitare il necessario discernimento nei confronti dei cambiamenti proposti, proprio in nome di quello spirito critico che essi dovrebbero sviluppare nei loro studenti.[12]

A prescindere dal fatto che il prossimo anno il modello ministeriale sia o meno adottato in tutte le scuole italiane, esso richiede comunque ai docenti la capacità di confrontarsi e di esprimersi in modo collegiale nel merito delle competenze così delineate. Proprio per questo ritengo che i consigli di classe – al di là dell’elegante formula delle ‘èquipe educative’  – debbano finalmente riscoprire il loro fondamentale ruolo di programmazione e valutazione, senza lasciarsi tentare da semplificazioni burocratiche (pratiche standardizzate) e da principi estranei alla deontologia professionale del docente, mutuati dalla logica aziendalista dominante.

© 2015 Ermete Ferraro (https://ermeteferraro.wordpress.com )

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IL SISTEMA DI SOTTO-VALUTAZIONE DEI DOCENTI

11/10/2014

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Fra le sue priorità programmatiche, il governo Renzi ha inserito la riforma della scuola. Non è certo un’affermazione originale, visto che quasi tutti i governi succedutisi nel nostro Bel Paese hanno ritenuto indispensabile quanto meno una ritoccatina all’assetto della scuola italiana, regolarmente accusata di conservarsi immobile ed insensibile alle grandi trasformazioni della società.

Il risultato di questo rituale politico non è stato esaltante, anzi ha sottoposto il già compromesso equilibrio dell’istituzione scolastica italiana a continue scosse ondulatorie e sussultorie, in nome dell’innovazione, ovviamente imposta per decreto. Le scosse maggiori hanno colpito il sistema nervoso e l’equilibrio psichico di una classe docente molto stagionata e poco incline a rimettersi continuamente in discussione, che ha reagito spesso a tali cambiamenti in modo con un adeguamento passivo e poco convinto ai nuovi dettami ministeriali.

Dopo anni e anni di riforme della scuola italiana (ma forse sarebbe meglio chiamarle ‘de-forme’…), è però apparso evidente che non si trattava più tanto di ridisegnare i cicli scolastici e loro durata, di proporre indicazioni programmatiche flessibili al posto di rigidi programmi uguali per tutti e neppure di esaltare il mito dell’autonomia scolastica, mentre la si mortificava con tagli ai finanziamenti e con normative che puntavano all’adeguamento più che all’innovazione ed alla sperimentazione.  Il ‘bersaglio’ della smania riformistica di chi ci ha governato e ci governa si è poi spostato sui docenti in quanto tali, o meglio sulla loro qualificazione professionalità e carriera, in nome di un altro mito dell’efficientismo aziendalista: la valutazione.

Per carità, niente da eccepire al concetto in sé di valutazione dell’attività lavorativa – in questo caso professionale – di un pubblico dipendente, che non è certo un lavoratore di serie A cui tutto sia dovuto e nulla si debba chiedere. Il fatto è che questa improvvisa smania valutativa non sembra essere affiorata per questioni di equità, di tutela degli utenti del servizio pubblico scuola o per rendere l’insegnamento sempre più qualificato ed efficace. La principale preoccupazione di chi ci governa – peraltro incapace di garantire a coloro che si avviano alla docenza una formazione realmente valida sul piano non solo teorico ma anche pratico – da alcuni anni è quella di trovare un modo per “selezionare” coloro che già insegnano, valutandone le prestazioni professionali e consentendo in tal modo livelli e carriere diversificate.

Dietro il moralistico martellamento sulla necessità che i riluttanti docenti si facciano finalmente valutare affiora la volontà di aumentarne i carichi di lavoro e di ridurne quantitativamente la presenza nelle scuole, avviando in parallelo pratiche didattiche parzialmente sostitutive dell’insegnamento classico, in favore di tecnologie didattiche e di strumentazioni informatiche.

Non dovrebbe sfuggire a nessuno – ma purtroppo succede abbastanza spesso – che se chi ci governa fosse animato da una genuina preoccupazione per i destinatari finali del processo educativo-didattico, ossia gli studenti, tale lodevole proposito mal si concilierebbe col tentativo di ‘spremere’ dai docenti una maggiore quantità di prestazioni, anziché una migliore qualità del servizio offerto.

Una scuola…avanguardista? 

Il documento diffuso dal governo Renzi su tale materia è stato significativamente intitolato: “La buona scuola” (http://www.governo.it/backoffice/allegati/76600-9649.pdf ) ed ha come significativo sottotitolo:“Facciamo crescere il Paese”, lasciando intuire che l’Italia “crescerà” (qualunque cosa voglia significare questo ambiguo verbo…) se, e solo se, il suo sistema scolastico diventerà più “buono” di quanto è attualmente. Nell’introduzione, infatti, si affermano subito tre teoremi fondamentali, la cui validità è ovviamente data per scontata: 1) “l’istruzione è l’unica soluzione strutturale alla disoccupazione” (sic!); 2) “Dare al Paese una buona scuola significa dotarlo di un meccanismo permanente d’innovazione, sviluppo e qualità della democrazia” e 3)”…dobbiamo tornare a vivere l’istruzione [...] come la leva più efficace per tornare a crescere. La scuola italiana ha tutte le potenzialità per guidare questa rivoluzione. Per essere l’avanguardia, non la retrovia del Paese”.

Mettendo da parte la sintassi ed il lessico un po’ traballanti del testo citato, questo proclama iniziale mi sembra ispirato da una retorica vagamente “futurista”. L’esaltazione acritica dell’innovazionepermanente, della crescita (considerata sinonimo di ‘sviluppo’) e perfino di concetti bellicosi ed un po’ datati come quello di avanguardia – pur se filtrata attraverso l’eloquio colorito e scoppiettante del nostropremier- lascia comunque perplessi e fa presagire che questa sedicente “rivoluzione” sta per abbattersi con effetti particolarmente dirompenti sulla nostra scuola.

Quest’ultima è severamente richiamata a smetterla di rappresentare la “retrovia” del nostro Paese, per diventarne invece: faro d’innovazione, leva della crescita e segno evidente (come si afferma poco dopo)“…di un Paese intero che ha deciso di rimettersi in cammino”.

Non credo di essere il solo a cogliere la retorica quasi profetica di tali espressioni che però, a ben guardare, sembrerebbero rinviare più al passato che al futuro. Si parla infatti di “tornare a vivere l’istruzione” in un certo modo, di “rimettersi in cammino”, di “ripartire da chi insegna”. Dietro il prospettato roseo futuro, insomma, sembrerebbe di cogliere un vago – direi quasi nostalgico –  riferimento a tempi migliori, contrassegnati da parole come “orgoglio”, “coraggio” e “crescita”.

Basta con l’Italietta di chi vorrebbe continuare a “pensare in piccolo” e si basa sul “si è sempre fatto così” !  “Il mestiere più nobile e bello” – prosegue il proclama renziano – è quello di “aiutare a crescere le nuove generazioni”. Per questo serve una scuola fondata sulla “stabilità” degli organici dei docenti e sulla vera “autonomia” delle singole scuole, chiamate in termini calcistici a “schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”.

L’immagine della scuola preconizzata da questo documenti pare improntata ad una visione neo-futurista di progresso (fatto di innovazione, crescita, sviluppo, competizione, coraggio etc.) e va a  delineare un modello che sappia “sbarazzarsi della burocrazia scolastica” e punti invece all’innovazione tecnologica (la “connettività alla Rete”) ed all’efficienza: “attraverso un sistema in cui la retribuzione valorizzi l’impegno di ogni insegnante e il contributo al miglioramento della propria scuola, perché non più concepibile una carriera scolastica in cui si cresce solo perché s’invecchia”.

Ecco che la montagna della retorica rivoluzione scolastica ha partorito il misero topolino della vera molla della riforma: commisurare la retribuzione dei docenti al loro effettivo “contributo”, spazzando il vecchio modello di carriera fondata sugli anni di esperienza e premiando invece il merito e l’impegno innovativo. Se qualcuno avesse dei dubbi su cosa significhi “innovazione”, il concetto viene chiarito un po’ più avanti, quando si precisa che: “…la scuola deve diventare l’avamposto del rilancio del ‘Made in Italy’ [...]raccordando più strettamente scopi e metodi della scuola con il mondo del lavoro e dell’impresa” .

Beh, che queste cose le dicesse a suo tempo l’ex premier Berlusconi, riassumendole nel noto trinomio“Inglese, Internet e Impresa”, non mi meravigliava più di tanto. Ma che uno slogan altrettanto semplicistico ed aziendalista possa diventare la bussola della riforma renziana della scuola è un dato che sconcerta molto di più.

Come riempire…il portfolio

Il paragrafo 2.3 del vangelo della “Buona Scuola” è intitolato significativamente: “Premiare l’impegno. Come cambia la carriera dei docenti”. Nel capitolo seguente troviamo il  paragrafo 3.1 dal titolo:”Valutazione per migliorare la scuola”.  Anche qui, pur prescindendo da giudizi stilistici sulla prosa del documento, credo che valga la pena di soffermarsi su alcune espressioni in particolare, per coglierne non solo il senso palese ma anche quello latente.  La prima affermazione è che bisogna “far uscire i docenti dal ‘grigiore’ dei trattamenti indifferenziati”. Il vero problema, si chiarisce, è il dovere di “liberarci da quella standardizzazione che, negli ultimi decenni, inevitabilmente ha significato competizione al ribasso e frustrazione di riflesso”, col solo risultato di “accontentarsi delle prospettive di carriere fondate sul mero dato dell’anzianità”. Come si dovrebbe realizzare allora questa mirabile rivoluzione? E’ semplice: non ci si deve limitare a computare gli anni di lavoro didattico, ma c’è bisogno di “… introdurre elementi di differenziazione basati sul riconoscimento di impegno e meriti”. Semmai qualcuno s’illudesse che essi potranno essere valutati solo in base a certificazioni ed autocertificazioni, viene subito e minacciosamente avvisato che: “non sarà un sistema fatto di sole procedure formali e certificati. Perché ci sarà spazio per una valutazione anche qualitativa interna alla singola scuola”. Come dire: noi sì che facciamo sul serio, cari insegnanti; per cui, oltre a valutare gli anni di carriere ed i soliti crediti formativi, verremo a stanarvi fin dentro la vostra aula, per verificare quanto valete davvero!

Il sistema prospettato resta ancora costituito dall’insieme di crediti formativi che ogni docente riesce a cumulare negli anni, ma si precisa che essi saranno legati al suo impegno su tre precisi terreni: (1) “il miglioramento della didattica”; (2) “la propria qualificazione professionale” e (3) “la partecipazione al progetto di miglioramento della scuola” .

Tali crediti individuali andranno ad arricchire il ‘portfolio’ di ciascun docente e diventeranno pubblici e consultabili da parte dei dirigenti scolastici, che in tal modo potranno finalmente “…scegliere le migliori professionalità per potenziare la propria scuola”. Tutto chiaro, no? Le scuole, sempre più simili ad aziende private, potranno selezionare il personale da assumere, nel sano spirito capitalista della libera concorrenza, della premialità e delle logiche di mercato. Manco a dirlo, nell’esclusivo interesse degli studenti e della qualità del servizio offerto….

Ancora perplessi? Niente paura: il manuale della buona scuola offre altri ragguagli in merito, rispondendo in anticipo alla prevedibile domanda: “Come il docente potrà dimostrare quanto vale?” (sic). Infatti, si argomenta, ci sono crediti e crediti. Quelli ‘didattici’ si riferiscono alla qualità dell’insegnamento, mentre quelli ‘formativi’ rinviano a percorsi di formazione ed aggiornamento in servizio documentabili e valutabili. Infine, quelli definiti ‘professionali’ “sono assunti all’interno della scuola per promuovere e sostenerne l’organizzazione ed il miglioramento,sia nella sua attività ordinaria (coordinatori di classe) sia nella sua attività progettuale”. Sembrerebbe una risposta abbastanza chiara ed esaustiva, se non fosse per il fatto che si tratta di affermazioni comunque vaghe e, soprattutto, non rapportabili a criteri ben precisi che consentano ai docenti, per citare l’infelice espressione del titolo, di dimostrare quanto davvero valgono. Si dice solo che tale non facile compito sarà affidato a fantomatici“Nuclei di Valutazione”, interni ad ogni scuola ma comprendenti anche un membro esterno.

“Valutandi te salutant !”

“Scansiamo il campo dagli equivoci:il sistema di valutazione della scuola che intendiamo costruire nonè fatto di competizione e classifiche. E non mira,semplicisticamente, a “premiare la scuola migliore”, quanto piuttosto a “sostenere la scuola che si impegna di più per migliorare”. C’è una bella differenza: non abbiamo bisogno di gare tra istituti, ma di incoraggiare tutti gli istituti, in tutto il territorio, al miglioramento continuo di quello che offrono agli studenti”.

Queste nobili parole fanno da proemio al paragrafo 3.1 del documento ministeriale e vorrebbero rassicurarci, ma suonano come la classica “excusatio non petita”. Non c’è nessuna “gara” per qualificarsi come “la scuola migliore” – si afferma solennemente – ma solo la volontà di stimolare ogni scuola a dare il meglio di sé. L’obiettivo dichiarato poco più avanti è quello di “rendere giustizia” al percorso che ogni istituto intraprende per migliorarsi, non certo quello di stilare classifiche tra scuole. Ottimo! Peccato che nei Paesi dove questo sistema di valutazione è operativo da molti anni (come ad esempio negli U.S.A.) il risultato evidente è stato, sul piano didattico, la standardizzazione forzata dell’insegnamento e, su quello gestionale, la messa in mora o addirittura la chiusura d’intere scuole i cui punteggi erano risultati inferiori a quelli attesi…

“Il Sistema Nazionale di Valutazione (SNV), previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 80 del 2013, sarà reso operativo dal prossimo anno scolastico per tutte le scuole pubbliche, statali e paritarie.” – si avverte nel documento, precisando inoltre che “non sarà un ulteriore adempimento amministrativo” bensì qualcosa di serio e qualificato. Ma su quali basi?

“Dentro allo strumento di autovalutazione si troveranno indicatori su contesto e risorse, esiti e processi della scuola: ambienti di apprendimento, apertura verso il territorio, pratiche educative e didattiche, livello e qualità di quello che gli studenti avranno imparato,elementi socio-economici di contesto, ma anche informazioni utili per capire, ad esempio,se gli apprendimenti degli studenti incidono sulla loro scelta di proseguire gli studi o sulle loro chance di trovare un lavoro. Si verificherà se i risultati di apprendimento fra le classi e dentro le classi siano equi o meno all’interno della stessa scuola o se mostrano invece delle distorsioni da correggere affinché nessuna classe – e nessun ragazzo in nessuna classe – sia abbandonato a se stesso”.

Credo che nessuno di noi avrebbe saputo dire meglio… Il fatto è che a queste vibranti dichiarazioni d’intenti non sembrano però corrispondere precisi modelli di riferimento, tassonomie educative né chiari indicatori che ci spieghino su quali basi e come questi dati dovrebbero essere raccolti, ponderati e valutati.  Potete scorrere le restanti 60 pagine del documento ministeriale, ma non troverete nulla di più in proposito. Viceversa, un sistema scolastico come quello statunitense, per tornare al caso già citato di un’esperienza attuata da parecchio tempo, dei parametri di valutazione dell’insegnamento se li è dati. Anzi, ha stabilito un set di obiettivi in quasi ogni Stato della federazione, offrendo almeno un elemento di riferimento ai docenti interessati. Lo Stato di New York (cfr. http://www.teachscape.com/frameworkforteaching/home ), ad esempio, si è dato da anni uno strumento valutativo ben preciso, che può anche piacere o meno ma che comunque specifica su quali livelli e parametri sarà valutata la prestazione professionale di un docente, precisando perfino i ‘descrittori’ di ogni giudizio formulato. Si tratta, nel caso specifico, di quattro ambiti (“domains”): il primo si riferisce alla pianificazione e preparazione delle attività didattiche (ad es.: conoscenza degli studenti e conoscenza delle risorse disponibili); il secondo a quello che viene chiamato “ambiente della classe”(gestione dei comportamenti, delle procedure e degli spazi fisici); il terzo attiene specificamente al processo d’istruzione ed alle tecniche educativo didattiche impiegate (nel campo della comunicazione, del coinvolgimenti degli allievi, della discussione etc.); il quarto ed ultimo, infine, si sofferma sulle responsabilità del docente (fra cui la registrazione del proprio lavoro, il mantenimento dei rapporti con le famiglie o l’aggiornamento e lo sviluppo della propria professionalità).

Disporre di un documento che specifica i 4 ambiti (con 22 componenti e relativi 76 elementi) sui quali si deve essere valutati non rende questa valutazione necessariamente più scientifica né tanto meno oggettiva, ma quanto meno offre parametri di riferimento meno generici e vaghi.

Quello che è certo è che nella scuola italiana sta per mettersi in moto una macchina che rischia di andare avanti senza indirizzi precisi, ma iniziando comunque a suscitare in ogni scuola un clima competitivo ed un impeto aziendalista e carrierista che ritengo devastanti e che , ovviamente, smentiscono le tranquillizzanti premesse di cui sopra.

Basti pensare alla brillante trovata ministeriale del c.d. “docente mentor” che, si spiega: “ segue per la scuola la valutazione, coordina le attività di formazione degli altri docenti, compresa la formazione tra pari, sovrintende alla formazione dei colleghi, accompagna il percorso dei tirocinanti [...] e in generale aiuta il preside e la scuola nei compiti più delicati legati alla valorizzazione delle risorse umane nell’ambito della didattica” (pag, 57).       Si tratta di un sottile espediente per rilanciare la corsa all’autoaffermazione di alcuni docenti più intraprendenti, col miraggio di ‘indennità di posizione’, crediti professionali aggiuntivi e, perché no, scatti stipendiali per merito. Naturalmente tutti gli insegnanti ricordano che fine ha fatto la proposta di nominare in ogni scuola dei docenti “tutor” di livello superiore, affidandogli compiti di coordinamento didattico e di gestione del c.d. “portfolio” didattico dei singoli studenti….

La verità è che il solo portfolio di cui il MIUR non sembra affatto preoccuparsi è quello dei lavoratori della scuola, docenti o meno che siano, dai quali si pretende un impegno sempre più intenso, complesso e quantitativamente oneroso, in cambio di “un pugno di dollari” e di qualche medaglietta professionale da esibire, e davanti ai quali si agita anche lo spauracchio della “mobilità”, sia geografica sia professionale.  Ma siamo proprio sicuri che questa che ci stannio trionfalisticamente prospettando sia davvero “la buona scuola” di cui l’Italia ha bisogno?

Il punto finale della sintesi del documento così recita:  “12. LA SCUOLA PER TUTTI, TUTTI PER LA SCUOLA >Stabilizzare il Fondo per il Miglioramento dell’Offerta Formativa (MOF), renderne trasparente l’utilizzo e legarlo agli obiettivi di miglioramento delle scuole. Attrarre risorse private (singoli cittadini, fondazioni, imprese), attraverso incentivi fiscali e semplificazioni burocratiche”.

La “buona scuola”, in definitiva, sarebbe allora quella che punta sull’innovazione tecnologica e digitale, sul “pensare in grande”, sull’obiettivo della “crescita” produttiva e sulla prospettiva di finanziamenti provenienti dalle imprese?  A questo punto una domanda sorge spontanea: ma questa scuola è “buona”per cosa e soprattutto per chi?  Poniamoci questo quesito, diamoci una risposta e poi – come ci chiede il MIUR – esprimiamo liberamente la nostra opinione a chi ci chiede retoricamente di pronunciarci. D’altra parte, in fondo sarebbe ben strano se l’unica a non dover essere valutata fosse proprio la riforma della scuola !

© 2014 Ermete Ferraro (pubblicato il 3 ottobre 2014 su:http://ermeteferraro.wordpress.com )


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oltre i test, per far funzionare le teste

3/1/2014

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Mentre da noi, in Italia, sui giornali si parla di scuola solo in occasione delle occupazioni degli studenti o degli scioperi dei docenti, su prestigiosi quotidiani statunitensi è aperto da lungo tempo un vivace dibattito sulla riforma dell’istruzione e, in particolare, sulla mutazione genetica che ha trasformato la scuola in un “testificio”.  Una particolare attenzione a questo problema è riservata dalWashington Post, le cui rubriche dedicate all’educazione riportano spesso articoli riguardanti il “Common Core” (cioè l’imposizione di un ‘nucleo’ didattico comune a tutte le scuole di tutti gli stati degli USA) e la valutazione (degli alunni, ma anche dei docenti e perfino delle istituzioni scolastiche) mediante una massiccia somministrazione di test standardizzati.

Sebbene sulla goffa imitazione di questa modalità si direbbe che qui in Italia quasi nessun pedagogista trovi nulla da ridire, negli Stati Uniti il dibattito è invece molto acceso. Lì sono scesi da molto tempo in campo nutriti e combattivi gruppi di dirigenti scolastici, educatori, insegnanti e genitori, contestando l’assurda mania dei test di valutazione e la standardizzazione dei programmi didattici, in nome della libertà d’insegnamento e del rifiuto di simili criteri di selezione.

A questo tema ho già dedicato alcune note, l’ultima proprio sulla rivolta di chi, negli USA, si batte per“stop this madness” http://ermeteferraro.wordpress.com/2013/06/22/fermate-sta-pazzia/. Recentemente, però, mi è capitato di leggere un altro stimolante articolo sull’argomentohttp://www.washingtonpost.com/blogs/answer-sheet/wp/2013/11/23/beyond-tests-how-to-foster-imagination-in-students/, nel quale Marion Brady – noto pedagogista e docente con lunga esperienza – ha affrontato criticamente un altro importante aspetto negativo di tale impostazione. La sua attenzione si è focalizzata, infatti, sulla banalizzazione dell’istruzione per garantire a tutti alcune indistinte e generiche “competenze minime”, rinunciando a perseguire obiettivi formativi più ambiziosi, ad esempio stimolare la creatività personale.  Come “alimentare l’immaginazione” dei ragazzi, mortificata da una scuola sempre più appiattita e funzionale ad una società mercantile, omogeneizzata e guidata da un pensiero unico, è viceversa la preoccupazione di un veterano dell’istruzione come Brady, che non si rassegna ad una scuola che “insegna per i test”.

“Quelli che prestano attenzione sanno che la mania di testare le prestazioni di alto livello ha spinto centinaia di migliaia di bambini fuori dalla scuola, ha banalizzato l’apprendimento, ha radicalmente limitato la capacità dell’insegnante di adattarsi alle differenze tra discenti ed ha portato a fine molti programmi di educazione fisica, artistica e musicale . Ciò avvantaggia ingiustamente coloro che possono permettersi la preparazione ai test, rende il Congresso il consiglio d’amministrazione delle scuole d’America, crea irragionevoli pressioni ad imbrogliare, fa chiudere le scuole di quartiere, corrompe la professione docente  e blocca tutte le innovazioni, tranne quelle i cui risultati possono essere misurati da macchine, giusto per iniziare un elenco molto più lungo…” (art. cit.).

Se noi Italiani fossimo capaci d’imparare dall’esperienza altrui, quella maturata in decine d’anni di applicazione alle scuole statunitensi di questo modello dovrebbe renderci estremamente cauti nell’importarlo a cuor leggero nel nostro contesto, fra l’altro molto differente.  Il problema, peraltro, non consiste affatto in un irrazionale rifiuto dei docenti italiani a sottoporsi ad una valutazione oggettiva dei processi di apprendimento che sono riusciti ad avviare nei loro studenti. La questione riguarda piuttosto chi giudica cosa e in quale modo, cioè la legittima contrarietà da parte di molti insegnanti a sottoporre questa pur necessaria valutazione a meccanismi piuttosto discutibili, in nome d’una pretesa uniformità a criteri internazionali, livelli standardizzati ed a competenze selezionate in base a tassonomie didattiche decise in modo verticistico.

“Ridotto all’essenziale, ecco come funziona il sistema per mettere alla prova la competenza minima. Le Autorità stilano elenchi di quello che ritengono che i ragazzi dovrebbero sapere . Le liste sono date agli insegnanti, insieme con l’ordine di insegnare ciò che vi è scritto sopra. Test standardizzati controllano se gli ordini sono stati eseguiti. Qualcuno (non i docenti) imposta in modo arbitrario la linea di demarcazione tra passare o non passare il test e i ragazzi che avranno ottenuto un punteggio oltre il taglio sono considerati “minimamente competenti. Vi sembra ragionevole ? La maggior parte delle persone sembrano pensare così. Però  le scuole che si concentrano su competenze minime non possono produrre ragazzi abbastanza intelligenti per affrontare i problemi che si preparano ad ereditare…” (ibidem).

L’autore dell’articolo, dopo la sua efficace requisitoria contro questa fallimentare modalità didattica, suggerisce anche un efficace antidoto ad essa: una scuola che non punti a selezionare i discenti in base ad un’arbitraria linea di demarcazione tra chi supera o meno le prove strutturate, ma miri piuttosto a stimolare le loro capacità immaginative, logiche ed argomentative. Secondo Brady, progettare il futuro ed imparare a risolvere i problemi sono le competenze-chiave da privilegiare, ragion per cui politiche dell’istruzione che vanno in ben altra direzione preparano un inarrestabile declino dell’educazione. Egli puntualizza poi che, per rendere i progetti formativi capaci di stimolare l’immaginazione, occorre che essi rispondano a sette fondamentali condizioni: (a) devono essere compiti intellettualmente impegnativi ma fattibili; (b) devono essere concreti anziché astratti; (c) devono appartenere al mondo reale e non a quello delle teorie; (d) devono utilizzare tutte le discipline scolastiche; (e) richiedono un dialogo basato sul pensare ad alta voce; (f) la maggior parte dei ragazzi li deve trovare abbastanza interessanti da suscitare emozione; (g) richiedono agli studenti di passare dall’immagazzinare nella mente conoscenze preesistenti al creare nuove conoscenze.

Certo, le problematiche dell’istruzione pubblica nel nostro Paese sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti e la nostra società è oggettivamente differente dalla loro. Ciò non toglie che queste indicazioni possano applicarsi anche alla scuola italiana, per contrastare la diffusa tentazione di uniformarsi ad una metodologia didattico-educativa che sta sempre più contabilizzando i saperi come una qualsiasi azienda, a forza di privilegiare conoscenze “misurabili” e di perseguire competenze sempre più uniformi.  Credo quindi che portare avanti progetti come quelli suggeriti da Marion Brady nel suo articolo potrebbe essere un modo valido per evitare che la dittatura del pensiero unico e della standardizzazione renda sempre più grigia la nostra scuola, utilizzando queste “verifiche” come pretesto per una selezione pseudo-meritocratica dei docenti, delle classi e degli istituti.

“Per questi riformatori, i “dati” significano soprattutto i punteggi alle prove standardizzate. [...] Essi possono essere indebitamente usati dai politici e far affluire miliardi di denaro pubblico nelle casse delle corporations per pagare servizi di consulenza e materiali di preparazione ai test. Questo è ciò che le prove fanno. Ciò che non fanno, che non possono fare e non saranno mai capaci di fare, è misurare quelli che sono probabilmente i più preziosi risultati di una buona istruzione: l’immaginazione e la creatività. “ (ibidem)

Non sarà certo l’invalsizzazione della scuola italiana che assicurerà il successo scolastico dei nostri ragazzi e la qualità dell’insegnamento. La sfida della personalizzazione dei percorsi formativi e dell’apertura ad una cultura da costruire più che da trasmettere passivamente è troppo importante per essere ridotta alle elaborazioni statistiche dei dati raccolti somministrando le prove nazionali. Ma se i docenti per primi perderanno la loro carica d’immaginazione e di creatività, pur di adeguarsi alle direttive di vertice e di assicurare punteggi abbastanza alti alla propria classe, trionferà la logica delle programmazioni copia-e-incolla e delle crocette sui test.

Strumenti indubbiamente utili per la redazione dei registri elettronici ma assai poco adatti ad un insegnamento che miri a formare intelligenze e coscienze autonome.

© 2013 Ermete Ferraro (http://ermeteferraro.wordpress.com )


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fermate 'sta pazzia !

3/1/2014

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FRIFLESSIONI DI FINE D’ANNO (SCOLASTICO)Anche quest’anno scolastico si è chiuso con le solite statistiche pubblicate dai giornali sulla percentuale di ammessi e non ammessi nei vari livelli d’istruzione e con gli abituali commenti sulle prove nazionali per gli esami di licenza media o sulla valenza delle tracce dei temi di maturità.
Il fatto è che il baraccone mediatico segue sempre più stancamente le vicende di una scuola sballottata fra riforme e controriforme, ma sulla quale ormai si è smesso di dibattere sul serio, preferendo confluire nel pensiero unico dell’efficienza e del merito come leve dell’innovazione.
Gli stessi insegnanti – al di là delle vertenze sindacali che ne vivacizzano ogni tanto la rassegnata piattezza di chi è abituato ad “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone” – non stanno dando segni evidenti di opposizione ad una “riforma” (ma forse sarebbe meglio parlare di “de-forma”) della scuola che continua a marciare sulle rotaie obbligate di una visione aziendalista dell’istruzione, dalla quale – non a caso – da tempo è stato espunto l’aggettivo “pubblica”.
Le parole d’ordine che piovono dalle circolari ministeriali sono ovviamente rassicuranti (trasparenza, efficienza, valutazione oggettiva etc.), ma i risultati che esse si propongono di ottenere vanno in ben altra direzione. Classificare, standardizzare e selezionare sembrano essere diventate l’ossessione della scuola italiana, travolta da un’ansia da prestazione nei confronti dei partners europei e preoccupata di competere in una specie di hit parade mondiale dei risultati formativi, alla quale si continua a dare molto credito. Come se avesse senso raffrontare i dati della Svezia con quelli della Corea o anche quelli del Trentino/Sud-Tirol con quelli della Calabria/Sud Italia…
L’INVALSI, più che un ente convenzionato, sembra essere ormai diventato il motore stesso del MIUR, il “think-tank” che dovrebbe modernizzare la scuola italiana, “allineandola” (ecco un altro dei termini di moda…) agli “standard” internazionali. L’ambiguità dell’espressione anglofila (“serbatoio di pensieri” ma anche “carrarmato ideologico”) è comunque utile per capire come mai questa prestigiosa istituzione da anni riesca a dettare l’agenda dei nostri ministri dell’istruzione, siano di centrodestra o di centrosinistra.
Per contenere e vanificare l’opposizione all’invadente standardizzazione dei “test” nazionali da parte di alcune organizzazioni – sindacali e culturali – si sono escogitati così i sistemi più squallidi, fra cui l’inserimento di queste pratiche tra i compiti ordinari dei docenti all’interno di una legge finanziaria, oppure il ricorso a “circolari ministeriali” spacciate per fonti normative. Il risultato è che, passo dopo passo (come avrebbe detto qualcuno…), la mutazione genetica della scuola italiana è sempre più evidente, colpendo anche l’istruzione superiore e, di striscio, perfino la formazione universitaria. Se poi si aggiungono le trovate ministeriali sulla “de-materializzazione degli atti” e l’imposizione alle scuole del “registro elettronico” – cui di recente ho già dedicato un commento – abbiamo un quadro abbastanza completo di una situazione che sta sfuggendo di mano sempre più a chi nella scuola ci lavora, e che avrebbe quindi il diritto di dire la sua su queste pretese innovazioni.
Lo stesso criterio per la valutazione dei risultati conseguiti dagli alunni – sia trimestrale sia finale sia di esame – riducendo tutto ad un meccanismo automatico, di natura esclusivamente aritmetica, sta svilendo il ruolo stesso dei docenti. E, soprattutto, mi sembra che stia avvilendo la collegialità e la sovranità di giudizio dei consigli di classe, ridotti a ratificatori impotenti delle banali somme delle singole valutazioni, all’insegna di una “semplificazione” che vuole a tutti i costi rendere semplice ciò che, come la valutazione in campo educativo, è invece maledettamente complessa.   Il guaio è che chi cerca di opporsi alla “gioiosa macchina da guerra” dell’invalsizzazione della scuola italiana viene subito bollato come un ribelle sinistrorso, o quanto meno, come un vetero-insegnante, di poco larghe vedute e sempre spaventato dalle novità. Ciò dipende dal solito provincialismo della cultura e dei media italiani, che non sanno o non vogliono guardarsi un po’ attorno, per verificare se le “novità” che si vogliono imporre al nostro sistema educativo siano poi così…nuove e, soprattutto, se sia proprio vero che altrove obiettivi comuni e prove nazionali sono state accolte come doni della provvidenza.

GUARDIAMOCI  UN PO’ ATTORNO

La verità, in effetti, è abbastanza lontana da quella che ci viene dipinta. Il Francia, nel Regno Unito e soprattutto negli USA gli insegnanti stanno scendendo in piazza, sempre più numerosi e incavolati, per far valere i loro diritti sindacali, ma anche per salvaguardare la loro dignità di professionisti della formazione scolastica.
Negli Stati Uniti – dove “common core” e “tests” sono già stati introdotti da decenni nelle legislazioni statali e federali – è in atto una vera e propria rivolta dei docenti e perfino dei presidi, per denunciare l’invadenza stomachevole e socialmente selettiva delle “prove nazionali”, da noi esaltate come progressiste. La chiusura di decine di scuole per volta – utilizzando gli scarsi risultati nei test come banco di prova della loro inefficienza educativa – ha reso fin troppo evidente la connessione fra questi strumenti di pretesa valutazione delle prestazioni culturali degli studenti e la subdola selezione dei docenti e degli istituti che – a loro insindacabile parere – meritano di sopravvivere ai tagli, statali e federali, nelle spese per l’istruzione.
Non sembra essere bastato che migliaia d’insegnanti americani si siano ormai rassegnati ad insegnare “per” i test piuttosto che “con” i test, stravolgendo la loro autonomia professionale e livellando l’offerta formativa a danni delle classi più povere. Questa standardizzazione non è stata evidentemente capace di evitare accorpamenti e chiusure d’istituzioni scolastiche elementari e medie ed una pesante stretta anche nelle scuole superiori. Ecco perché si è creato un diffuso movimento di insegnanti che hanno, per così dire, fatto obiezione di coscienza a queste astruse pratiche selettive. Ed ecco perché – come riportava il Washington Post lo scorso 23 maggio in un articolo intitolato “Perché i test sugli obiettivi comuni hanno fallito” una cinquantina di presidi di scuole di vario ordine e grado dello Stato di New York hanno deciso di scendere anche loro in campo, indirizzando una lettera rispettosa, ma sicuramente molto dura, al Commissario Statale all’Istruzione John King. Ne riporto alcuni passi, nella mia traduzione:
“ Il risultato è che molti studenti hanno trascorso molto del loro tempo leggendo, rileggendo ed interpretando domande difficili e confuse sulle scelte degli autori circa la struttura e l’elaborazione di testi informativi [...] ma lo hanno fatto a discapito di molti degli altri profondi e ricchi obiettivi comuni…enfatizzati da stato e comuni. […] In Inglese, gli stessi standard e tutto quanto noi pedagogisti sappiamo essere vero in materia di lettura e scrittura ci dicono che interpretazioni molteplici di un testo possono essere non soltanto possibili, ma perfino necessarie ad una lettura approfondita. Tuttavia, per molte domande a scelta multipla, la distinzione tra la risposta esatta e le altre era quanto meno ridicola. Il fatto stesso che gli insegnanti riferiscono di disaccordi tra loro su quale risposta a scelta multipla fosse quella corretta, in diversi punti della prova nazionale di lingua, è indice che questa modalità di prova non è adatta agli studenti. [...] Questi esami determinano la promozione degli studenti. Determinano quali singoli alumni delle scuole possono iscriversi alla scuola media ed a quella superiore. Essi sono la base sulla quale lo Stato e la Città valuteranno – pubblicamente ed in privato – gli insegnanti. Gli esami determinato se una scuola potrebbe fallire ad uno scrutinio più accurato, dopo una relazione statale o cittadina – collegata ai test – che certifichi risultati scadenti, e se rischia perfino di essere chiusa. Queste realtà ci danno una sempre più grande sensazione dell’urgenza di essere rassicurati che i test riflettano le nostre più grandi aspirazioni per il processo d’apprendimento degli studenti…”
Come mai da noi, nel Belpaese, i capi d’istituto non solo non sentono il dovere di esprimere le loro prevedibili perplessità, ma addirittura si sentono vincolati da una specie di giuramento di fedeltà ad un’amministrazione statale della scuola che, a sua volta, sembra essersi legata in un patto indissolubile con le pretese “teste d’uovo” dell’Invalsi ?
Come mai il solo fatto che alcuni docenti mettano in discussione la validità, la legittimità ed obbligatorietà delle “prove nazionali” da essa confezionate sembra essere diventato per molti presidi una specie di eresia da combattere strenuamente, un reato di “lesa maestà” ?
Eppure i 50 capi d’istituto che hanno sottoscritto la lettera al New York State Education Commissioner non hanno avuto nessuna remora a denunciare anche il grosso affare che c’è sotto questi test standardizzati, soprattutto quando dietro la loro confezione e somministrazione c’è un colosso dell’editoria come la Pearson, che si vanta nel suo sito web di aver monopolizzato anche il settore delle prove per testare le istituzioni scolastiche. Scrivono i presidi newyorkesi:
“Siamo infine preoccupati che si ponga il destino di così tante comunità educative nelle mani dellaPearson – una società con una storia di errori (il più recente quello sul punteggio inesatto delle prove della Città di New York nel programma per i bambini dotati e di talento – il 13% di quelli da 4 a 7 anni che hanno sostenuto l’esame sono stati vittime di errori… ( La Pearson ha un contratto triennale col Dipartimento dell’Istruzione, per questo solo test, del valore di 5,5 milioni di dollari)…”.

DE-INVALSIZZARE LA SCUOLA ITALIANA

Ma come mai da noi nessuno va a ficcare il naso nel business editoriale delle “prove nazionali”, con le mille pubblicazioni proposte agli studenti per “esercitarsi” ad una pratica didattica che, evidentemente, è considerata ancora poco praticata nella scuola? Eppure si direbbe che tutti la vedano destinata a soppiantare quelle che troppi docenti si ostinano a seguire, come le verifiche orali dell’apprendimento, la personalizzazione dei percorsi, il lavoro di gruppo ed in gruppo, l’elaborazione personale di testi scritti di vario genere ed altre simili pratiche rètro…..
Come mai nessuno mette il naso neppure sulle convenzioni fra il MIUR e quell’INVALSI di cui poco si parla, ma che sembra esercitare un’influenza decisamente smisurata per la sua natura di medio ente, con un organico di appena 9 ricercatori su un totale di 21 persone impiegate nelle varie funzioni. Eppure anche da questo“Ente pubblico di ricerca con personalità giuridica di diritto pubblico ed autonomia amministrativa, contabile, patrimoniale, regolamentare e finanziaria, sottoposto alla vigilanza del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca” – come un po’ pletoricamente si autodefinisce – dipendono le sorti di una scuola come quella italiana, che non ha certo nulla da invidiare a quelle europee o transatlantiche, ma che è da tempo affetta da un provinciale complesso d’inferiorità nei confronti delle “prestazioni” degli altri Paesi.
Come può essere che dalle verifiche predisposte da questo Ente – peraltro commissariato dal lontano 2004 e pesantemente sotto organico – dovrebbe dipendere il riscatto della scuola italiana ed il raggiungimento di obiettivi di alto livello sul piano internazionale? E, soprattutto, perché mai il lavoro di“testing” spettante all’INVALSI lo dovrebbero svolgere gli insegnanti italiani nelle loro ore di docenza e, molto spesso, senza neppure condividerne le metodologie?
L’ultima prova nazionale d’Italiano alla quale i nostri ragazzi si sono dovuti sottoporre, in coda ai soliti esami scritti di licenza media, prevedeva, fra l’altro, la risposta ad alcuni curiosi quesiti, riguardanti un brano di Vincenzo Cerami, intitolato “Un rumorino crudele” . Ebbene, è mai possibile che tanti docenti e capi d’istituto non sentano anche loro il ‘fastidioso rumorino’ che proviene dalle scricchiolanti strutture di un Ministero che ha bisogno di ricorrere ad un ente esterno per confezionare un pacchetto di domande su un paio di testi letterari o giornalistici e su alcune questioni grammaticali?
Il secondo brano su cui si appuntavano le domande del test INVALSI era un articolo giornalistico sullo straordinario fenomeno editoriale legato alla serie di Harry Potter ed ai suoi amici maghetti. Il testo si concludeva con queste parole:  “Se milioni di ragazzi di culture diverse lo leggono con fame non è solo questione di mercato: è anche questione di cuore. E il cuore di un ragazzo bisogna ascoltarlo con le parole che ha, anche se suonano assai semplici.”.
Bene, bravi! Ma siamo proprio sicuri che il MIUR metta fra le sue priorità l’ascolto del “cuore” dei nostri ragazzi, visto che una scuola sempre più standardizzata e omologata va in direzione esattamente contraria a quel ruolo educativo e di guida, alunno per alunno, che sembra aver poco a che fare coi criteri di efficienza, di oggettività e di selezione tanto sbandierati?

UN RAP CONTRO LA SCUOLA STANDARDIZZATA

Bene hanno fatto allora gli studenti USA a lanciare il loro grido contro questa stupida imposizione di un metodo che serve solo ad aumentare le differenze socio-culturali e a tagliare i costi dell’istruzione pubblica, con la scusa dell’efficienza. E lo hanno fatto a modo loro, con un video che diffonde un efficace “rap” di Jeremy Dudley, intitolato “Stop this madness!”, cui s’ispira anche il titolo di questo commento. Riporto di seguito alcuni dei versi più significativi, che ho cercato di esprimere in italiano:
<<Fuori contatto e fuori sintonia noi siamo / sotto-insegniamo, però sovra-testiamo, /proprio dove li dovrebbero investire / invece i fondi li vogliono tagliare / ognuno, ragazzi compresi, è iper-stressato/.
Diteci allora come e perché è accaduto /che, pensando ai ragazzi, ‘sto sistema /il migliore è stato ritenuto, // In vari modi le scuole stanno stritolando / – dalle norme fiscali ai mandati senza fondo – / e se sulla strada dei soldi ci stiamo incamminando / Ci sta profitto certo se la scuola sta fallendo/ Riformare l’istruzione non è filantropia./ Se del meglio per i ragazzi non si tratta /Come diavolo può essere una cosa ben fatta?/ Cercano di contrapporre sindacati e comunità /ma: “Ferma ‘sta pazzia!” lo diciamo in unità.//
Testano i ragazzi per dire: ha colpa l’insegnante / C’entra questo piuttosto che i ragazzi / quello che loro dicono nonostante./ ‘Sto sistema è tanto pieno di difetti /che annega nei problemi /è pensare nelle bolle se tu pensi fuori schemi. / Ma pensare nelle bolle limita la creazione / Stiamo standardizzando i test o una generazione? / E questi dati chi ha il diritto di collezionare? /E perché mai c’è il diritto di selezionare?//
E’ che i politici non conoscono l’educazione / se non antepongono i ragazzi nella legislazione / Quello loro è un apprendimento soffocante / Questa dei test è una cosa ossessionante / I ragazzi meritano di meglio certamente.//
E ora stiam correndo verso ‘comuni obiettivi’ / già avvertiti di aspettarci che i nostri ragazzi / Otterranno alla fine dei punteggi cattivi. / Ragazzi di tutto il mondo, vogliamo ricordarvi / che il test è solo un test, non può classificarvi!…”

Ecco, appunto. Faremmo bene a ricordarcelo anche noi e, perché no, a lanciare anche in Italia “un rap sull’Invalsi… per non selezionare su presupposti falsi.”

(c) 2013 Ermete Ferraro (http://ermeteferraro.wordpress.com )ai clic qui per effettuare modifiche.

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geo-disgrafia...

3/3/2013

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Dopo il precedente articolo sulle " 5 parole della scuola" (vedi sotto e nel mio blog, cliccando sul testo evidenziato), questo secondo capitolo del nostro viaggio nella etimologia delle parole italiane – suddivise per argomenti – ci richiama una delle carenze della basi culturali di molti ragazzi. Ebbene sì, sto parlando proprio delle conoscenze un po’ approssimative che molti di voi“scolari” rivelate in geografia. Queste lacune sono aggravate anche dal fatto che in Italia – ma ancor di più in altri paesi europei e d’oltreoceano -  questa disciplina sta a poco a poco diventando la ‘cenerentola’ dell’istruzione di base, relegata com’è ad un’ora settimanale o, quando va bene, a poco più. 
Beh, questa è l’occasione per rimettere la geografia in primo piano, sotto i riflettori della nostra ricerca etimologica, scoprendone la fondamentale importanza. E, del resto, quale materia potrebbe essere più utile in una realtà che sembra aver perso la bussola e che ci chiede di migliorare di molto la nostra capacità di orientarci?
Quale insegnamento può tornarci più utile di quello che ci fa riscoprire le risorse della nostra madre terra (Gea), aiutandoci a capire quanto ci siamo allontanati dalle sue leggi e quanti guai stiamo tirandoci addosso con la nostra assurda pretesa di “dominarla” anziché di “custodirla”?
Voi ragazzi di oggi, cittadini fin dentro il midollo, state progressivamente perdendo ogni contatto sia con la terra con la minuscola (intesa in senso fisico, come terreno), sia con la Terra con la maiuscola (nel senso di Pianeta, di ambiente vitale della specie umana). Non è certo colpa vostra, ma è un fatto che tutto ciò che riguarda la “natura” è ormai diventato per molti di voi solo lo sfondo del desktop
della vostra esistenza, sul quale si sono sovrapposte fin troppe icone legate solo alla realtà urbana ed alla “civiltà”. C’è quella della casa sempre più tecnologica ed automatizzata, quella dei mezzi di trasporto sempre più veloci e avveniristici, quella del mondo scintillante dello shopping, oppure quelle del mondo del virtuale, si tratti della musica computerizzata e dei film in 3D o dei videogiochi e dei social network,  che vi risucchiano in una dimensione senza tempo e senza spazio.
Non c’è quindi da meravigliarsi se molti ragazzi come voi – ma anche un sacco di adulti – sono affetti da quel problema che ho chiamato scherzosamente nel titolo “geodisgrafia”. La definirei come una specie di disturbo dell’apprendimento, che consiste nel perdere contatto con l’ambiente naturale al punto tale che le nozioni geografiche diventano sempre più teoriche, vaghe ed astratte, anche parliamo della realtà  più fisica e concreta di qualunque altra.
Prendiamo la prima delle 5 parole dedicate proprio alla geografia (clic sul testo evidenziato per aprire la scheda). Come insegnante, quando parlo di “morfologia” del territorio italiano – o di qualsiasi altra parte della Terra - mi rendo conto che molti alunni/e imparano sì la differenza tra territorio pianeggiante, collinoso e montuoso, ma soltanto...a parole. Non ci sono video,fotografie o lavagne interattive che possano sostituire quello che si percepisce di persona, salendo a piedi su una collina o arrampicandoci lungo
ripidi e stretti sentieri su una vera montagna, dall’alto della quale la pianura diventa subito qualcosa di molto più evidente e significativo. Come si fa, poi, a spiegare il “regime” ed il corso di un fiume a chi non ne ha mai visto uno da vicino? Chi può illudersi di rendere con chiarezza – a parole o proiettandone le immagini – l’inquietante fascino di un cratere vulcanico o l’abbagliante senso di vuoto d’un deserto? 
Sì, l’etimologia ci fa capire che studiare la “morfologia” di un territorio vuol dire spiegare con un discorso
(lògos) la sua forma (morphé) e le sue caratteristiche. Ma volete mettere quanto tutto ciò diventa
immediatamente più chiaro se nell’ambiente fisico ci muoviamo e viviamo davvero, invece di studiarlo sull’atlante o su ben illustrati manuali di geografia?
Il secondo termine da approfondire è “idrografia” , derivato dalla composizione della parola greca che indica l’acqua (hydor) col suffissoide “grafìa” (dal verbo greco “gràphein” = descrivere). Anche in questo caso si indica chiaramente che quella della carta geografica è solo una linea azzurra disegnata, più o meno lunga e tortuosa, che attraversa un’area verde (pianura), provenendo da una di colore marrone (monte) e poi giallo (collina). Sta di fatto che quel disegno non potrà mai rivelarci la bellezza e varietà d’un vero fiume, così come un bacino blu sulla cartina non potrà mai darci l’idea di che cos’è un vero lago, attraente ma anche un po’ misterioso.
Sempre di origine greca è anche l’etimologia del termine geografico “orogénesi”(composizione di “òros” = monte col suffissoide “gènesis” = origine, nascita). L’idea che anche le montagne sono nate non è proprio facile da spiegare. Eppure è proprio così e, nel corso di periodi di tempo che possiamo
solo immaginare, anche quei giganti rocciosi hanno avuto un’origine, un’evoluzione e perfino una decadenza, diventando sempre più bassi ed arrotondati, proprio come succede con l’invecchiamento a noi uomini e ad altri esponenti del mondo animale.
Chi, poi, non ha sentito parlare della “ecologìa” ?  In effetti, se ne parla soprattutto da quando abbiamo perso il nostro rapporto con l’ambiente fisico e con leggi naturali. Ecco perché oggi ci sentiamo fare sempre più discorsi e prediche in nome dell’ecologia, che non avrebbero senso se non ci fossimo da tempo avviati lungo una pericolosa strada, caratterizzata dall’estraneità nei confronti di quella nostra “casa” comune (dal gr. “ôikos” = abitazione). Ecco, allora, che si rendono indispensabili i richiami degli “ecologisti”, che ci additano le allarmanti conseguenza dello sfruttamento dei terreni, delle acque e perfino del sottosuolo, accompagnate da un dissennato inquinamento delle nostre stesse fonti di vita (aria, suolo, acqua). Vivere di più immersi nella natura – piuttosto che rinchiusi nelle nostre tane di cemento ed asfalto – sarebbe comunque il modo migliore per riconciliarci con la natura e per sentircene
parte, non avversari.
L’ultima parola della nostra seconda scheda etimologica riguarda un aspetto della geografia che si definisce più“politico”,  riguardando la vita delle persone che si associano nelle città (in greco: “pòlis”).
La “demografìa”,infatti, è la descrizione (ritorna il suffissoide “grafìa”) d’una popolazione (in greco: “démos”). Anche i popoli, come le montagne, hanno un’origine, uno sviluppo, una diffusione e, prima o poi, anche un declino. Che si tratti di calo “demo-grafico” (cioè della diminuzione del numero degli abitanti di una città), oppure d'una grave crisi del suo sistema “demo-cratico” (ossia della capacità del popolo di conservare nelle proprie mani il potere – v. il suff. greco: “-crazìa” – evitando ogni forma di dittatura), studiare la geografia ci aiuta molto a capire evoluzione ed involuzione d’una civiltà.
Ignorare le basi della geografia, al contrario, potrebbe contribuire a farci diventare ancor più sbandati e privi di riferimenti, in un mondo sempre più artificiale e disconnesso dalla realtà naturale.
Per evitare questo dobbiamo imparare ad orientarci e, soprattutto, ad orientare le nostre scelte di vita.
Perciò abbiamo bisogno di una vera “bussola” che, etimologicamente parlando, è solo una scatoletta di legno di bosso (dal lat.: “bùxus”), che contiene però una preziosa lancetta magnetica, grazie alla quale non dovremmo più sbagliare strada. O almeno si spera.
 

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LE 5 PAROLE DELLA SCUOLA

31/1/2013

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La prima parte del corso di avviamento all'etimologia, che sto svolgendo nella classe di seconda media nella quale ho solo un'ora di 'approfondimento' settimanale, si è conclusa con la pubblicazione di un mio manualetto online e come supporto cartaceo per gli alunni/e che partecipano a questo progetto. Per la seconda parte, di tipo più pratico ed applicativo, ho pensato ad attività di tipo laboratoriale, che richiedono strumenti e tecniche capaci di portare i ragazzi/e ad una verifica personale della competenza acquisita in teoria.
Visitando http://logophilia.in/ - interessante e accattivante sito web indiano tra i più qualificati nella diffusione della ricerca etimologica - ho trovato molto efficace la periodica presentazione d'un esempio concreto di analisi dell'origine e dell'evoluzione semantica di alcune parole molto comuni, raggruppate per ambiti tematici.
Il motto di questa vivace realtà formativa indiana è: "Teach a word, you will help for a day; teach etymology, you will help for lifetime" ("Insegna una parola e darai aiuto per un giorno; insegna l'etimologia e darai aiuto per tutta la vita"). Condivido in pieno questo principio, ragion per cui mi è sembrato che questo genere di "schede" tematiche siano una risorsa particolarmente utile che, nella sua semplicità, può stimolare chi inizia questo percorso a cimentarsi in prima persona con l'indagine etimologica. Se è vero, come si proclama sul sito citato, che le parole sono uno strumento fondamentale per la conoscenza e che un ampio numero di vocaboli possono essere agevolmente decifrati attraverso la comprensione funzionale dell'etimologia, aiutare i ragazzi ed i giovani a verificare direttamente come funziona questa tecnica di analisi, facendone esperienza direttamente, perchè non ispirarsi a questa metodologia? Ecco, allora, che ho cominciato a proporre al mio gruppo-classe la prima delle 'schede' etimologiche dedicate a specifiche tematiche. Si tratta delle "5 parole della scuola", che mi hanno permesso di cominciare con loro questo percorso laboratoriale, discutendo non solo della tecnica etimologica in sé, ma anche di come sia cambiato, nel tempo, il senso di tanti termini di largo uso.
Scavando nelle parole per ricavarne le radici più antiche, quindi, gli alunni/e hanno scoperto, ad esempio, che la "cattedra" non è quela scrivania dietro la quale siedono i loro insegnanti, bensì  la "sedia" che - come una volta il trono del vescovo o di un governatore civile - rappresenta il simbolo della loro posizione ed autorità. O anche che "registro" è un termine di origine latina da cui sono derivati anche "registratore" e "registrazione", trattandosi anche in questo caso di strumenti che servono a "riportare" dati e fatti. Così come hanno scoperto che lo stesso "insegnante" dovrebbe essere una persona capace di lasciare effettivamente un "segno", una traccia, nella mente e nella coscienza dei propri alunni. Questi ultimi, poi, hanno appreso di chiamarsi così perché l'insegnamento è ciò che nutre - "alimenta" - le loro menti e li fa crescere da ogni punto di vista.....
Ebbene, come si vede da questa semplice esplorazione di cinque parole è possibile allargare il discorso e, soprattutto, incitare i ragazzi/e a seguire gli esempli forniti, provando a fare anche loro gli "Sherlock Holmes" del vocabolario, svelandone misteri e curiosità. Ecco perchè ho deciso di allargare questa esperienza a tutti gli allievi/e delle mie classi, nella speranza che anche in loro si accenda una scintilla d'interesse per la ricerca etimologica e per le sue affascinanti avventure dentro le parole.

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ETIMOLOGICAMENTE PARLANDO...

29/9/2012

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“…..Se noi, consapevoli dell’eredità
insita in ogni parola, esaminassimo i
nostri vocabolari,
scopriremmo che dietro ogni
parola
si nasconde un mondo, e chi pratica le
parole…
dovrebbe sapere che mette in moto dei
mondi,
che scatena forze polivalenti…”

Heinrich Boll, 1958
(Nobel per la letteratura)


Il titolo di questo post è anche quello del progetto che ho proposto
alla scuola media dove insegno, per l’a.s. 2012/13, utilizzando in almeno una classe affidatami l’ora settimanale di ‘approfondimento di lettere’.  E’ un modo per sperimentare un approccio attivo ed innovativo alla riflessione linguistica già
prevista dal curricolo della scuola media puntando, in questo caso, sulla scoperta da parte degli alunni/e delle enormi risorse lessicali della lingua italiana. Tutto questo non soltanto in chiave di arricchimento del vocabolario, obiettivo che resta prioritario, ma anche di scoperta dell’evoluzione dell’Italiano, avviando i ragazzi/e delle medie alla ricerca etimologica.
Mi sono sempre meravigliato della scarsa attenzione prestata dalla scuola italiana a questi specifici aspetti della formazione linguistica degli studenti, soprattutto se si tiene conto che esiste una antica e consolidata tradizione di studio del latino e del greco e che in Italia sono state portate avanti in questo campo ricerche molto autorevoli. Il guaio è che lo studio dell’origine delle parole e della loro evoluzione semantica è stato costantemente confinato a livello universitario, senz’alcuna ricaduta sulla formazione linguistica di base dei nostri ragazzi. Non c’è niente di peggio, secondo me, per rendere questo campo di studi un polveroso esercizio accademico, un approfondimento glottologico sicuramente importante, ma del tutto privo di interesse per la maggioranza degli studenti ed anche di chi, dentro o fuori della scuola,
vorrebbe forse capire qualcosa di più della propria lingua.
 Ho recentemente ripetuto la ricerca su Internet, sperando di trovarvi esperienze recenti di avvio alla ricerca etimologica nella scuola italiana, ma la situazione non mi sembra affatto cambiata. Ciò vale anche per altri Paesi di cultura latina, come la Francia o la Spagna, dove – per quanto ne so – mancano
progetti scolastici che vadano in tale direzione. Paradossalmente, per reperire esperienze didattiche di avvio all’etimologia per studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado bisogna spostarsi nientemeno che negli USA...!  Ci sono stati e ci sono, infatti, molteplici progetti educativi statunitensi che valorizzano questo strumento di approfondimento linguistico, utilizzando una metodologia
d’insegnamento seria ed affidabile, ma anche stimolante e coinvolgente.
  Lo stesso termine “etimologia” è un importante oggetto di studio, dal momento che ci rinvia ad una ricerca del senso “vero” (etymòs) delle parole che usiamo, quanto meno nel senso di “originario”. Ci si lascia intravedere, infatti, sia la possibilità di scavare dentro di esse per trovarvi le radici più antiche e comuni, ma anche di ripercorrere l’affascinante evoluzione nel tempo della loro forma e del loro significato. In una società dove le parole stanno progressivamente smarrendo il loro senso, sostituite da
slogan, frasi fatte e ‘netichette’ , credo invece che ci sia un gran bisogno di riscoprire il valore ed il significato degli strumenti di comunicazione linguistica. Si tratta, fra l’altro, di un ambito particolarmente adatto a  stuzzicare l’interesse dei ragazzi/e, abituandoli a riflettere su ciò che dicono e scrivono, ma anche ad indagare scientificamente sul senso autentico delle parole.  Da questa ricerca, infatti, emergeranno spesso le assurdità e le contraddizioni di tante nostre espressioni, ma anche divertenti aneddoti sull’origine di certi termini e paradossali stravolgimenti del senso di altre parole. La possibilità di analizzare la propria lingua con metodi che ne evidenziano la struttura interna, infine, credo che sia di grande utilità per la scoperta di collegamenti meno evidenti tra vocaboli e che rappresenti, soprattutto, una grossa risorsa, offerta agli allievi, perché riescano da soli ad avvicinarsi al senso di parole ancora sconosciute.
Presentando il mio progetto, ho chiarito allora che esso non ha solo lo scopo d’accrescere le conoscenze  linguistiche degli alunni/e, ma che persegue anche i seguenti obiettivi didattici:
 1)           una reale competenza nel decifrare i segni linguistici, per ricavarne informazioni di grande utilità pratica, ai fini della comunicazione, prima ancora che dello studio delle discipline linguistico-letterarie;
 2)           un obiettivo didattico di natura interdisciplinare, in quanto l’approccio etimologico alla propria lingua ne rivela sia gli aspetti storici sia quelli geografici. La scoperta dei ricorrenti meccanismi di
formazione e trasformazione delle parole rappresenta inoltre un utile strumento nello studio delle lingue straniere;
 3)           un ulteriore obiettivo collaterale, poiché l’introduzione all’etimologia dei vocaboli italiani è un fondamentale strumento di approccio alla lingua latina, finalizzandone lo studio.
Per quanto riguarda l’organizzazione del progetto “Etimologicamente parlando…” , ho previsto di svilupparlo nel corso delle 30 ore disponibili (una alla settimana) con la seguente articolazione:
 (a)         parte introduttiva > per chiarire la materia oggetto dello studio e per fornire agli alunni/e gli strumenti lessico-grammaticali di base  per intraprendere una ricerca etimologica;
 (b)         seconda parte > incentrata sull’approfondimento dei prefissi, dei suffissi e di tutti gli elementi che modifichino il concetto di base, contenuto in
nuce
nella radice della parola;
 (c)         terza parte > dedicata alla ricerca degli elementi radicali di origine latina, greca e  germanica ricorrenti nella formazione del vocabolario della lingua italiana;
 (d)         quarta e ultima parte > applicativa di quanto appreso, dedicata a concrete esercitazioni all’analisi etimo- semantica di parole molto frequenti del lessico italiano, ma anche di termini desueti e letterari.
 Il progetto utilizzerà per la sua attuazione gli abituali sussidi didattici (lavagna, computer di classe e/o LIM, appunti forniti fotocopiati agli alunni/e o dettati in aula, cartelloni riassuntivi, testi scolastici d’Italiano e  dizionari della lingua italiana). Prevedo di avvalermi anche di sussidi bibliografici specifici (manuali, dizionari etimologici…) ed anche fonti multimediali (fornendo collegamenti a siti specifici (per esercizi e giochi linguistici) ed a schede che pubblicherò sul sito-web scolastico (Schoolbook).
Sul piano metodologico, seguirà un approccio didattico attivo e coinvolgente, alternando le lezioni frontali col lavoro di gruppo, momenti di discussione, attività  ludiche e vere e, soprattutto, con una sorta di lavoro ‘sul campo’. Avvierò vere e proprie indagini etimologiche a tema (es.: nomi e/o cognomi, denominazione delle discipline scolastiche e/o degli sport, terminologia sanitaria, alimentare, lessico giuridico-costituzionale) e pubblicizzerò le ricerche etimologiche realizzate dal gruppo-classe mediante una pubblicazione finale (cartacea e/o multimediale).
 Chiudo ricordando che “parola” – etimologicamente parlando – deriva dal latino “parabola”, a sua volta calco del greco: “parabolé”. Ogni parola, quindi, è qualcosa che viene ‘lanciata’ (gr.: bàllo ) e che
percorre una traiettoria (parà) prima di giungere a destinazione. Questo termine ci ricorda anche le parabole evangeliche e la loro capacità di cogliere il segno, utilizzando però una strada metaforica e
narrativa.  Bene, se col mio progetto riuscirò a ripercorrere la storia racchiusa dentro una semplice parola avrò sicuramente fatto qualcosa di utile…

 © 2012 Ermete Ferraro (http://ermeteferraro.wordpress.com )


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UN GRAZIE E UN ARRIVEDERCI...

23/6/2012

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Care/i ragazze/i della 3^G,
è giunto il tempo di concludere il vostro percorso di scuola media e di spiccare il salto verso la scuola superiore. Gli esami non sono esattamente il modo più simpatico per concludere una relazione, ma sono certo che vi state rendendo conto di quanto sia importante un ‘rito’ di passaggio del genere, che serve a
chiudere un capitolo e ad aprirne un altro. Ho apprezzato, infatti, che gli esami di licenza vi hanno stimolati a diventare più attivi ed autonomi, perché questi sono proprio i due requisiti migliori per chi, come voi, si prepara ad entrare nel ciclo secondario degli studi. Vi ho trovati più maturi e sicuri e
questo non può che fare piacere a chi ha sempre creduto nelle vostre possibilità.
Certo, non sono mancati tra voi e noi docenti momenti di tensione, d’insoddisfazione e qualche incomprensione. Sinceramente, mi sarei preoccupato se non ci fossero stati, dal momento che il rapporto alunni-insegnanti è per sua natura conflittuale e che, credo ormai lo sappiate, per me i conflitti non sono mai qualcosa di negativo, se aiutano a crescere ed a comunicare meglio.
Quest’anno scolastico per me è volato, ma sicuramente per voi non è stato proprio così...Abbiamo trascorso insieme soltanto poco più di otto mesi, ma vi assicuro che mi sono bastati per apprezzarvi e per volervi bene. Siete stati la mia prima classe al “Viale delle Acacie” e non vi dimenticherò facilmente, anche per la magia che avete saputo trasmettermi col vostro talento musicale.
Questo ultimo ‘post’ del 2011-12 però non deve diventare un malinconico addio, ma piuttosto un affettuoso ‘arrivederci’ a voi tutte/i, nella certezza che non ci perderemo di vista e che continueremo a comunicare via mail o sito, oppure direttamente di persona.
Spero di avervi lasciato qualcosa di buono per la vostra crescita culturale e umana e mi auguro che il mio metodo di lavoro possa tornarvi utile alle superiori. Vi mando dunque un affettuoso augurio di raggiungere gli obiettivi che vi siete prefissati e di ottenere ogni soddisfazione dagli esami, nella certezza, però, che non sono i voti che contano, ma quanto ognuno di voi è realmente maturato come persona. Anche voi mi avete dato molto – col vostro entusiasmo, la vostra simpatia e le vostre curiosità - e per questo vi ringrazio, perché la scuola deve essere anche e soprattutto scambio e non un processo unilaterale d’istruzione. 
Che dirvi ancora? Ho parlato anche troppo durante le lezioni e adesso che stiamo per lasciarci preferisco che le parole lascino spazio a quell’intesa che spero di aver raggiunto con ciascuno/a di voi. Vi abbraccio tutte/i con grande affetto e vi auguro ogni bene.
Il vostro prof

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    ERMETE FERRARO (Napoli 1952), laureato in Lettere e diplomato in Servizio Sociale, è docente ordinario di materie letterarie nella scuola media. E' anche attivista ecopacifista, operatore sociale ed operatore pastorale. Ha scritto alcuni libri e vari articoli. (Web: www.ermeteferraro.it - blog.: http://ermeteferraro.wordpress.com

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